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Insegnare genere e “razza”: eredità coloniali e nuove prospettive

Questo è il contributo che ho scritto con Manuela Coppola per il volume sulla didattica di genere realizzato dal Laboratorio di studi femministi «Anna Rita Simeone» Sguardi sulle Differenze, che avevo già segnalato qui. La versione in pdf si può scaricare da qui.

Insegnare genere e “razza”: eredità coloniali e nuove prospettive[1]
di Manuela Coppola e Sonia Sabelli

in Maria Serena Sapegno (a cura di), La differenza insegna. La didattica delle discipline in una prospettiva di genere,  Carocci, Roma 2014, pp. 29-36

Introduzione

L’esigenza di coniugare pedagogia femminista e antirazzista è cruciale per l’Italia che, nella relazione annuale di Amnesty International del 2011, è descritta come un Paese ancora alle prese con intolleranza e discriminazioni fondate sul genere e l’etnicità. In quest’ottica, ci proponiamo di esplorare lo scarto esistente tra un corpus emergente di opere critiche che analizzano il persistente impatto del colonialismo sulle forme di razzismo e sessismo attuali, e la pratica quotidiana di insegnare alle nuove generazioni. A partire dalla necessità di colmare questo divario tra approcci teorici e pratiche educative, nelle pagine seguenti vorremmo offrire strumenti utili per stimolare nella didattica scolastica una maggiore consapevolezza delle intersezioni tra sessismo e razzismo, ponendo l’attenzione sui discorsi attraverso i quali si costruiscono le differenze di genere e razza, e smantellando la presunta “naturalezza” e inoffensività di atteggiamenti sessisti e razzisti. Utilizziamo infatti il termine “razza” nella consapevolezza che essa non esiste in quanto categoria materiale, fondata su una differenza biologica, ma solo come una costruzione culturale che – al pari delle categorie di sesso e genere – deve essere compresa alla luce delle relazioni sociali: ci riferiamo dunque a un’«invenzione» che, nel senso comune, è stata presentata come una differenza “naturale” proprio per legittimare il razzismo (cfr. Ribeiro Corossacz, 2013).

Il ritardo degli studi postcoloniali e degli studi critici sulla bianchezza in Italia

L’Italia ha iniziato solo recentemente a confrontarsi col proprio passato coloniale e con le conseguenze delle migrazioni di massa, eppure questa storia continua ancora oggi a dare forma alle nostre percezioni delle differenze razzializzate e di genere. Fino a tempi recenti, la società italiana è stata caratterizzata da una rimozione dell’eredità coloniale e, di conseguenza, dall’assenza di un dibattito critico sulle intersezioni tra il genere e la razza, che ha prodotto un vuoto preoccupante nel sistema dell’istruzione. Negli ultimi due decenni, alcune studiose e studiosi di diverse discipline hanno cominciato a riconoscere il ruolo cruciale dell’eredità del colonialismo italiano nell’esperienza delle migrazioni attuali, identificando una specifica «amnesia strategica» in relazione alla storia coloniale italiana (cfr. Del Boca, 1992 e 2005; Ponzanesi, 2004b; Triulzi, 2006). La storia coloniale infatti è stata opportunamente cancellata dall’inconscio collettivo italiano, per essere relegata in quello che Sandra Ponzanesi ha definito «inconscio postcoloniale» (Ponzanesi, 2004b, p. 26). Confinando il passato coloniale nel vago ricordo dello «scatolone di sabbia» – come veniva definita la Libia per enfatizzare la futilità dell’impresa coloniale – molti italiani oscillano ancora tra memoria repressa e nostalgia. Inoltre, il ritorno di stereotipi coloniali che riguardano l’alterità africana testimonia la persistenza di rappresentazioni che, come ha suggerito Alessandro Triulzi, «mentre includono narrazioni addolcite del passato coloniale, escludono i migranti africani dalla piena partecipazione alla vita culturale, sociale o politica del paese» (Triulzi, 2006, p. 433).

Il colonialismo italiano è iniziato in Nord Africa nei tardi anni ’70 dell’Ottocento – proprio subito dopo la nascita della nazione, se si considera che l’Italia come moderno stato unitario esiste solo a partire dal 1861. Sebbene i territori colonizzati in Etiopia, Eritrea e Libia siano andati persi dopo la seconda guerra mondiale, la Somalia è rimasta sotto l’amministrazione fiduciaria italiana fino al 1960. La costruzione dell’identità italiana durante il periodo coloniale ha fatto spesso riferimento alla razza come indicatore di una minacciosa alterità, così come oggi la nerezza e l’italianità continuano a essere attributi che si escludono a vicenda (cfr. Burgio, 1995; Sabelli, 2010a; Giuliani, 2013). Inoltre, se le intersezioni della razza col genere hanno profondamente influenzato le relazioni di potere tra colonizzati e colonizzatori, oggi gli stereotipi genderizzati e razzializzati permeati dalla mentalità coloniale sono in azione anche nelle metropoli multiculturali occidentali, dove marcano le differenze tra migranti e cittadini (Sabelli, 2010b).

Il tema delle interconnessioni tra il retaggio coloniale e i flussi migratori contemporanei è da tempo una priorità in molti paesi europei, come Francia e Inghilterra, dove ha contribuito a ridefinire le identità nazionali. L’Italia, invece, ha sempre percepito se stessa più come una nazione colonizzata che come colonizzatrice, sia a causa di una lunga storia di invasioni, migrazioni interne ed emigrazione, sia per il ritardo con cui si sta affermando una critica postcoloniale. Solo di recente alcuni studi hanno cominciato a connettere l’emigrazione di massa del periodo post-unitario con le migrazioni contemporanee verso l’Italia, affermando che il razzismo non può essere confinato al periodo coloniale. Seguendo le intuizioni offerte dagli studi critici sulla bianchezza, in un libro che significativamente si intitola Gli italiani sono bianchi? (2006), Jennifer Guglielmo e Salvatore Salerno dimostrano che, durante l’esperienza dell’emigrazione di massa negli Stati Uniti del secolo scorso, gli italoamericani non erano percepiti come bianchi. Allo stesso tempo, Caterina Romeo (2006, p. 80) sostiene che l’idea che gli italiani non siano bianchi è tuttora diffusa nella cultura popolare americana, mentre precisa che la presunta bianchezza della popolazione italiana è al centro delle differenti forme di razzismo perpetrate dagli italiani in diversi periodi storici. In quest’ottica, Romeo esplora anche la complessità dei discorsi sul razzismo e sulla bianchezza in Italia affermando che, sebbene durante il secolo scorso siano stati discriminati per il colore della pelle, oggi sono gli italiani stessi che discriminano gli immigrati arrivati in Italia. Inoltre, la nozione di razza è stata usata anche per affermare le differenze tra italiani meridionali e settentrionali nel contesto delle migrazioni interne (cfr. Teti, 1993; Capussotti 2010). Più in generale, la storia culturale e politica dell’identità razziale degli italiani è attualmente al centro di un crescente numero di pubblicazioni, che intrecciano l’analisi dell’immaginario coloniale e le forme presenti del razzismo con la costruzione del genere e della sessualità (Lombardi Diop, Romeo, 2012; Petrovich Njegosh, Scacchi, 2012; Curcio, Mellino 2012; Giuliani 2013; Giuliani, Lombardi Diop 2013).

La mercificazione dell’“alterità”

Lo sfruttamento e la mercificazione dei corpi delle donne, sia nei media che nella politica italiana, hanno rivelato la pervasività di un immaginario visuale sessista che non è ancora superato e che contribuisce a rendere naturali e accettabili anche atteggiamenti apertamente misogini. L’invisibilità e la falsa rappresentazione dei corpi delle donne nere, tuttavia, è doppiamente inquietante, proprio perché dimostra la convergenza di atteggiamenti sessisti e razzisti. Le percezioni contemporanee dell’“alterità”, infatti, si fondano su rappresentazioni razzializzate e genderizzate dei corpi delle donne nere e immigrate, che rivelano la persistenza dell’eredità del colonialismo italiano. Tramite la ripetizione delle metafore coloniali che si sviluppano a partire da esotismo e sfruttamento sessuale, le donne nere sono mercificate e ridotte a oggetti: in continuità con l’ideologia coloniale che impiegava le immagini dei corpi neri per commercializzare prodotti esotici come il caffè e il cioccolato, spesso le pubblicità trasmettono ancora una rappresentazione discutibile dei corpi delle donne nere (cfr. Ponzanesi, 2005; Sabelli, 2010b).

Inoltre, in Italia il colore della pelle non è l’unico indicatore del razzismo e della discriminazione, dal momento che anche le differenze etniche, religiose e culturali sono componenti significative dei processi di marginalizzazione ed esclusione (cfr. Passerini et al., 2007). Spesso infatti le donne migranti sono intrappolate negli stereotipi che prendono forma dalle loro relazioni con uomini, bambini e anziani: ad esempio, le donne dell’Europa orientale sono descritte o come la lavoratrice domestica forte e matura che si prende cura degli anziani oppure come la giovane donna che “ruba” il marito di qualcun’altra; mentre l’identità delle donne nere coincide spesso con l’immagine delle lavoratrici del sesso (cfr. Pojmann, 2006, p. 38; Coppola, 2012, p. 123).

Dall’altra parte, le donne sono ancora il terreno sul quale si negozia l’identità nazionale, perché marcano i confini della nazione ed è affidato loro il compito di preservare l’identità etnica, la bianchezza e l’italianità, riproducendo forme di inclusione ed esclusione. È interessante notare che le organizzatrici della manifestazione nazionale del 13 febbraio 2011, con gli slogan «l’Italia non è un paese per donne» e «rimettiamo al mondo l’Italia», hanno reclamato il contributo delle donne nella costruzione della nazione, senza alcun riferimento alle relazioni di potere implicite in tale processo: finendo così per dimenticare che l’identità nazionale italiana ha spesso coinciso con una rigida linea del colore, che ha separato gli italiani bianchi dagli “altri” neri, ed è stata caratterizzata, fino a tempi molto recenti, dalla mancanza di una riflessione critica sulla bianchezza. Infatti, il dibattito contemporaneo sulla mercificazione dei corpi delle donne non ha tenuto conto delle voci e delle esperienze delle donne nere e immigrate che vivono in Italia: anche gli interventi femministi «sono stati enunciati principalmente dalle posizioni di soggetti bianchi, di classe media ed eterosessuali» e, inoltre, «non hanno preso in considerazione il fatto che i corpi sono simultaneamente razzializzati e genderizzati, e che la violenza di genere sussiste nelle intersezioni con altri assi naturalizzati del potere e del privilegio» (Bonfiglioli, 2010, p. 64).

Nell’Italia postcoloniale, coloro che sono razzializzati non sono più solo i colonizzati africani, ma anche le persone immigrate che arrivano dall’Est e dal Sud globale, che oggi reclamano il diritto a essere i nuovi cittadini italiani, o le persone rom che ancora sperimentano gravissime discriminazioni in tutta l’Europa. Nonostante il riconoscimento formale da parte dell’Unione Europea, rom e sinti continuano infatti a subire politiche brutali di assimilazione forzata, segregazione e deportazione. Inoltre, in tempi recenti la loro immagine stereotipata è stata strumentalizzata a fini repressivi sia da parte dei partiti di destra che di centro sinistra. L’associazione con la criminalità, il nomadismo e, nel caso delle donne, con il mito della “zingara rapitrice”, si è risolta nell’intensificazione delle politiche repressive e nella pressione, da parte dell’Italia, a modificare in senso restrittivo le direttive comunitarie che regolano la mobilità dei cittadini europei (cfr. Clough Marinaro, Sigona, 2011).

Come conseguenza dei flussi migratori globali, «per la prima volta nella sua storia […] nuove fantasie di bianchezza sono emerse nel discorso pubblico italiano, costruite […] tanto intorno alla questione della cristianità quanto attorno a una pretesa difesa dell’illuminismo» (Mezzadra, 2012, pp. 40-41). Queste «fantasie di bianchezza» rinforzano la presunta omogeneità dell’identità nazionale italiana – che in realtà non trova corrispondenza né nella realtà contemporanea, né in quella passata – ed è inquietante notare come si esprimano attraverso un ritorno degli stereotipi coloniali e dei commenti islamofobi. Pertanto, le recenti celebrazioni per il centenario dell’unificazione italiana, il 17 marzo del 2011, hanno rappresentato un’occasione perduta per ri-discutere la nozione di italianità e hanno rivelato un’incapacità ad affrontare la complessità della realtà contemporanea, che si sta rapidamente trasformando in seguito all’immigrazione. Anche se il dibattito sulle intersezioni tra la razza e il genere rimane ancora ai margini del dibattito pubblico e della cultura accademica in Italia, oggi le scrittrici e gli scrittori migranti sono coloro che intrecciano il discorso sulla razza con altre categorie di analisi come il genere, la religione, la classe e l’etnicità, riscrivendo non solo la letteratura ma la stessa identità nazionale italiana (Romeo, 2006, p. 88).

Invece di afferrare l’opportunità per riconsiderare la nozione di identità nazionale, accogliendo la sfida posta da questi nuovi cittadini, il dibattito politico sulla razza e sull’immigrazione, negli ultimi due decenni, si è intrecciato con i temi della religione e del genere, finendo per legittimare retoriche nazionaliste, razziste e identitarie (cfr. Sabelli 2012; Ribeiro Corossacz 2013).

Le “seconde generazioni” e il ruolo della scuola

In un simile contesto, è facile immaginare che nel sistema dell’istruzione possano esserci dei vuoti da colmare in relazione al genere e alla razza. Nonostante l’approccio postcoloniale stia lentamente guadagnando terreno nella ricerca accademica italiana, soprattutto nei Dipartimenti di Studi angloamericani, in quelli di Letterature comparate e di Storia, si registra ancora un certo ritardo nell’affrontare le intersezioni tra razzismo e sessismo nei programmi scolastici e nei corsi universitari. È solo negli ultimi vent’anni, infatti, che pubblicazioni, conferenze e traduzioni su questi argomenti sono cresciute in maniera esponenziale, contribuendo all’apertura di un dibattito anche in ambiti non accademici (Morosetti, 2004; De Donno, Srivastava, 2006; Derobertis, 2010; Petricola, Tappi, 2010; Lombardi Diop, Romeo, 2012; Sinopoli, 2013).[2]

Tuttavia, la scuola primaria e secondaria sembra ancora in gran parte esclusa da questo dibattito e, soprattutto a livello istituzionale, la forte presenza di alunni immigrati o di origine non italiana è spesso percepita come una minaccia al sistema dell’istruzione. L’argomento più comune è che i bambini stranieri possano costituire un ostacolo allo svolgimento dei programmi e ritardare così l’apprendimento anche degli altri bambini. Se da un lato è vero che i bambini appena arrivati in Italia hanno poca o nessuna conoscenza della lingua italiana, è anche necessario sottolineare che, invece di colmare questo divario linguistico grazie a docenti specializzati nella didattica dell’italiano come seconda lingua, le risposte politiche si sono risolte nella separazione di fatto degli studenti immigrati dai non immigrati. Nel 2008, infatti, il Ministero dell’istruzione ha introdotto un tetto del 30% al numero di bambini immigrati per classe, sostenendo che il numero di studenti stranieri deve essere proporzionato al totale degli studenti.

Questa legge apertamente razzista e discriminatoria non tiene in considerazione il dato che circa la metà dei 630.000 studenti considerati stranieri sono in realtà bambini che non hanno la cittadinanza italiana nonostante siano nati in Italia. Se durante il periodo coloniale i bambini considerati “meticci” erano percepiti come una minaccia per le rigide gerarchie razziali, oggi le cosiddette “seconde generazioni” mettono in discussione il razzismo legislativo e istituzionale secondo cui la cittadinanza si fonda sullo ius sanguinis piuttosto che sullo ius soli (Derobertis, 2010, pp. 2223). Ne consegue che, anche dopo aver acquisito la cittadinanza, i figli di immigrati continuano a essere discriminati dagli apparati ideologici dello Stato (la scuola, la polizia, i mezzi di informazione) che li trattano come se fossero stranieri.

Una recente relazione del COSPE (Cooperazione per lo sviluppo dei paesi emergenti, 2011, p. 33) ha sottolineato come, in un simile contesto, «bisogna considerare una priorità lo sviluppo di strategie mirate a integrare gli studenti non italiani il più velocemente possibile nel sistema scolastico». È però significativo che questa auspicata “integrazione” suggerisca implicitamente un’assimilazione aproblematica nel sistema scolastico, senza riconoscere la necessità di ridiscutere i programmi ministeriali, per non parlare dell’urgenza di affrontare il persistere di rapporti di potere nella rappresentazione dell’alterità, a scuola e nella società in senso lato.

La retorica dell’espansione militare e della sottomissione culturale che ha caratterizzato il colonialismo italiano ha infatti prodotto una quantità di immagini per testi scolastici, film e pubblicità che hanno contribuito alla creazione di un’alterità esotica, docile e pronta a essere conquistata e dominata. Come Sandra Ponzanesi ha sottolineato, fin dal periodo della propaganda fascista la rappresentazione dell’“altro” non è mai stata oggetto di indagine critica, generando così un vuoto nel dibattito su razza e genere (Ponzanesi, 2004a, p. 136). Di conseguenza, i programmi scolastici risultano ancora fortemente condizionati da una prospettiva etnocentrica o, meglio, “italocentrica”, che non è in grado di riconoscere la matrice razzista dell’esperienza coloniale italiana e di metterla in relazione con la complessa storia dell’imperialismo in Europa. Ad esempio, analizzando i manuali di storia adottati dalle scuole italiane a partire dal 1946, Giuliano Leoni e Andrea Tappi hanno messo in evidenza come l’esperienza coloniale italiana sia stata sottoposta a un processo di revisione per permettere la costruzione di un’identità nazionale e di un prestigio da opporre ai pregiudizi e agli stereotipi attribuiti all’“altro”. Almeno fino alla fine degli anni Ottanta, infatti, la rappresentazione degli “italiani brava gente”, gran lavoratori e portatori di civiltà, è andata di pari passo con i silenzi e le omissioni sulle atrocità commesse durante il periodo coloniale (Tappi, Leoni, 2010, p. 156).

Se la realtà dell’immigrazione ha prodotto un’attenzione verso i temi interculturali, tanto che alcuni progetti editoriali hanno iniziato ad affrontare le questioni della razza e dell’etnicità nella costruzione dell’identità italiana, la loro interconnessione con il genere non è stata ancora riconosciuta come una categoria d’analisi pedagogica all’interno del sistema dell’istruzione. Inoltre, nonostante abbia avuto un forte impatto sulla nostra società negli anni Settanta, il movimento femminista italiano si è concentrato quasi esclusivamente sulla differenza sessuale tra donne e uomini, ponendo in secondo piano le disparità tra le donne in termini di razza, etnicità, classe e altre categorie di potere.[3] Dall’altra parte, in termini di riflessioni teoriche, la storia coloniale italiana è stata di recente discussa da una prospettiva di genere in diverse pubblicazioni e dibattiti pubblici che hanno analizzato la costruzione della razza e le politiche sessuali attuate durante il colonialismo (Sòrgoni, 1998; Stefani, 2007; Poidimani, 2009; Bonfiglioli et al., 2009; Spadaro, 2013). La casa editrice Ediesse, ad esempio, ha inaugurato una collana, intitolata significativamente sessismo&razzismo, proprio per esplorare la naturalizzazione delle categorie di genere e razza. Il primo libro della collana, un’introduzione alle connessioni tra razzismo e sessismo da una prospettiva antropologica e femminista, ha tradotto il discorso del femminismo nero e postcoloniale nel contesto italiano (Rivera 2010). In modo simile, altri testi di recentissima pubblicazione stanno contribuendo a introdurre nel dibattito italiano, fuori e dentro l’accademia, una prospettiva intersezionale, che tenga conto, cioè, dell’intersezione del genere con altre categorie sociali: grazie a tali ricerche – sia nel campo delle scienze sociali che nella società civile – si sta diffondendo la consapevolezza che non sia più possibile parlare delle donne o della differenza di genere senza chiamare in causa anche gli altri attributi che definiscono un soggetto, come ad esempio classe, razza, cultura, età, religione (Marchetti, Mascat e Perilli 2012; Corradi 2012; Marchetti 2013; Ribeiro Corossacs 2013).

Nuove prospettive: insegnare genere e razza oggi

Questa ricchissima produzione teorica stenta però ad affermarsi nel senso comune, come dimostrano gli insulti rivolti recentemente a Cècile Kyenge, la prima donna nera ad essere nominata ministra di un governo italiano: come ha giustamente rilevato Annamaria Rivera (2013), la coniugazione di sessismo e razzismo è profondamente radicata nell’immaginario italiano, che si nutre di metafore e dispositivi de-umanizzanti che risalgono al periodo coloniale. Per questo motivo, risulta ancora più urgente agire per introdurre una consapevolezza dell’intersezione di genere e razza nei programmi scolastici. Al momento, qualunque riflessione critica sulle articolazioni del razzismo con il sessismo dipende ancora in gran parte dalle iniziative dei singoli docenti che affrontano la realtà quotidiana delle classi interculturali. Alcuni insegnanti, ad esempio, hanno scelto di inserire nei loro programmi testi letterari come Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio di Amara Lakhous, che mette in discussione le definizioni stabili e rassicuranti dell’italianità. Allo stesso tempo, negli ultimi anni sono anche cresciuti gli incontri pubblici con scrittori migranti nelle scuole. L’impegno mirato di alcuni “scrittori migranti”[4] nella letteratura per l’infanzia costituisce un ulteriore passo in questa direzione. Se da un lato questi testi contribuiscono al progetto didattico di insegnare la lingua e la cultura d’origine delle nuove generazioni che vivono in Italia, allo stesso tempo introducono i bambini italiani a diverse lingue e culture. Progetti pedagogici come la pubblicazione di poesie e romanzi bilingui – come ad esempio quelli pubblicati a partire dal 1991 nella collana “Mappamondi” da Sinnos, una casa editrice specializzata nell’educazione interculturale – offrono uno spazio per il dialogo interculturale nelle scuole, nel tentativo di colmare il divario istituzionale tra i curricula scolastici e la realtà quotidiana degli studenti (Cosenza, 2008). L’interesse di scuole e biblioteche verso queste pubblicazioni testimonia l’urgenza di superare le mancanze della politica attraverso le iniziative di insegnanti, scrittori e case editrici. Vale anche la pena ricordare che nel 2006 uno dei documenti forniti per la stesura della prima prova scritta degli esami di maturità era una citazione da un’intervista a Christiana de Caldas Brito, autrice brasiliana che scrive in italiano. Interrompendo inaspettatamente una lunga tradizione di citazioni da autori in gran parte maschi e indiscutibilmente italiani, gli studenti sono stati invitati a scrivere un saggio breve a commento, tra le altre, dell’affermazione di de Caldas Brito secondo la quale la migrazione è un’esperienza universale: «Siamo tutti migranti». Nonostante questo possa essere visto come un timido tentativo di fare breccia nel monolitico curriculum del sistema scolastico italiano, molto resta ancora da fare per decostruire i rigidi confini dell’appartenenza nazionale.

Vorremmo concludere questo capitolo rinviando alla relativa unità didattica in cui abbiamo incluso alcuni esempi di pratiche discorsive (testi letterari, manifesti e immagini pubblicitarie) che possono essere analizzate insieme agli studenti, per incoraggiarli a esplorare le diverse forme assunte dall’oppressione razzista e di genere, e a sviluppare una maggiore consapevolezza e un approccio critico verso questi temi, fino a metterli in relazione con la loro esperienza, dentro e fuori dalla scuola. La realtà contemporanea delle classi interculturali sta infatti rimettendo in discussione già da tempo i confini che dividono coloro i quali sono stati considerati “stranieri” per il colore della propria pelle da chi invece ha accesso ai diritti di cittadinanza. Questa è un’occasione che la scuola non può assolutamente perdere.

Note

[1] La versione originale di questo capitolo, qui aggiornata e ampliata, è stata pubblicata col titolo “Not a Country for Women, nor for Blacks”: Teaching Race and Gender in Italy between Colonial Heritages and New Perspectives, in B. Hipfl and K. Loftsdóttir (eds.), Teaching “Race” with a Gendered Edge, AtGender, Utrecht & Central European University Press, Budapest 2012, pp. 143-159.

[2] Cfr. anche il panel “Postcolonial Italy” organizzato al convegno EACLALS tenutosi a Venezia nel 2008 e l’intenso lavoro di traduzione dei classici della critica postcoloniale svolto dalla casa editrice Meltemi.

[3] Secondo Olivia Guaraldo, il femminismo italiano ha costruito una rappresentazione «orientalizzata» della femminilità che resiste alla sua stessa trasformazione (Guaraldo 2011, 10).

[4] La definizione di “scrittori migranti”, introdotta per riferirsi a scrittori di origini immigrate, ha dato vita a un dibattito critico in cui diverse voci hanno messo in discussione l’uso di un’etichetta che distingue gli scrittori tra “nativi” e “migranti” (cfr. Gnisci, 1998). Consapevoli di ciò, riteniamo che sia utile sottolineare il contributo specifico di questi autori al processo di decolonizzazione e rinnovamento della lingua italiana e del canone letterario.

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