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La città postcoloniale di Gabriella Kuruvilla

Sonia Sabelli, La città postcoloniale di Gabriella Kuruvilla: plurilinguismo e multifocalità nella letteratura italiana contemporanea, in Stefania De Lucia (a cura di), Scrittrici Nomadi. Passare i confini tra lingue e culture, Sapienza Università, Roma 2017, pp. 57-64

Nel romanzo di Gabriella Kuruvilla Milano, fin qui tutto bene (2012)[1], la città appare come un crocevia di persone che passano continuamente i confini tra lingue e culture. La narrazione – caratterizzata da una struttura multifocale e da un uso intenso del plurilinguismo – scaturisce da un fatto di cronaca: è il 13 febbraio 2010 quando un trentenne dominicano accoltella un diciannovenne egiziano ed esplode la rivolta dei magrebini in via Padova. Milano è attraversata da marce razziste e la risposta dell’amministrazione locale si traduce in rastrellamenti, strade militarizzate, telecamere di sorveglianza, chiusura anticipata dei negozi. Nel dibattito pubblico si contrappongono le posizioni di chi legge la presenza migrante come una minaccia per la sicurezza urbana e di chi la interpreta come una possibilità per costruire nuovi modelli di convivenza interculturale. Il romanzo di Gabriella Kuruvilla e le foto di Silvia Azzari, che introducono ogni capitolo, si propongono di documentare le trasformazioni in corso nella città.

La narrazione mette a fuoco un processo che i personaggi del romanzo definiscono “turnover abitativo”: le comunità migranti, infatti, sostituiscono l’ondata di meridionali che si erano trasferiti al nord dopo la seconda guerra mondiale. L’unica sensazione comune a tutti i gruppi sociali che abitano la città è un costante senso di spaesamento: gli italiani sono sempre fuori luogo mentre le persone migranti si sentono catapultate in una sorta di altrove. Il libro sembra una “lonely planet dei poveri” in cui Milano si rivela una città postcoloniale non solo perché esibisce le tracce del passato coloniale, ma perché si configura come uno spazio sociale eterogeneo, in cui coesistono diverse lingue e culture, diversi modi di produzione e diversi regimi di lavoro, mentre i confini sono resi porosi dalla pressione dei movimenti migratori (cfr. Mezzadra 2008).

I quattro capitoli in cui è suddiviso il romanzo prendono il titolo dai nomi di vie e quartieri che sono caratterizzati da una consistente presenza delle comunità migranti: via Padova, viale Monza, Sarpi e Corvetto corrispondono rispettivamente alle voci dei quattro personaggi che li abitano, raccontandoli in prima persona.

Secondo Anita Patel, alias Paola Rossi, quarantenne mezza italiana e mezza indiana nata e cresciuta a Milano (come l’autrice), via Padova è “Una via piena di immigrati, che ne vedi di tutti i colori” (Kuruvilla 2012, p. 6); perciò i negozianti espongono cartelli con scritte come “Orgogliosi di essere napoletani” o “Prodotti italiani, qualità italiana, professionalità italiana, personale italiano”; evidentemente, per prendere le distanze dai negozianti stranieri (ivi, p. 21).

Invece Samir, ex pusher e lavapiatti egiziano che abita in viale Monza, sostiene che “Da questa zona, negli ultimi anni, gli italiani sono scappati in massa, vendendo o affittando, spesso a prezzi assurdi, i loro appartamenti, il più delle volte fatiscenti, agli immigrati […] E quando incroci un italiano lo riconosci subito, perché sembra sempre fuori posto” (ivi, p. 77).

La fotografa Stefania abita in via Paolo Sarpi, dove i cinesi hanno aperto negozi che sono allo stesso tempo abitazioni e laboratori. “La formula del tre per uno, quella dello spazio in cui vivi, produci e vendi” secondo Stefania accomuna l’esperienza dei lavoratori cinesi a quella di molti giovani artisti precari italiani; solo che lei nel suo loft ci vive da sola, mentre “i cinesi, nel loro tre per uno che a volte è anche un seminterrato, ci stanno in quanti ci riescono a stare” (ivi, pp. 98-99).

Infine, Tony, rasta figlio di emigranti napoletani, che imita i “nigga” e si crede un “badman”, abita nel quartiere Corvetto, dove tunisini, marocchini ed eritrei hanno “pericolosamente invaso” il “feudo” della droga che fin dai primi anni Settanta era nelle mani dei siciliani (ivi, p. 142).

Lo sguardo dei personaggi mostra come gli spazi urbani stiano subendo una continua trasformazione nella loro destinazione d’uso: ex fabbriche si sono trasformate in qualcos’altro, un ex deposito dell’Enel che era un centro sociale diventerà un enorme parcheggio, un’industria ferroviaria che dovrebbe essere un laboratorio di creatività per ora è un teatro “dove – osserva Stefania – il venerdì i musulmani pregano a turno, dandosi il cambio come gli operai che entrano ed escono dalle fabbriche” (ivi, p. 118).

Si vive all’aperto, nelle strade, dove non esiste scissione tra spazio pubblico e privato, tra mio e nostro, ma i territori appaiono delimitati da rigide linee della classe e del colore: da una parte le periferie e i quartieri popolari, dove i migranti sostituiscono i meridionali, dall’altra i locali del centro frequentati dalla borghesia progressista. Queste linee di confine producono forme di esclusione o ammettono solo inclusioni differenziali, ma nella metropoli globale nascono e si sviluppano anche inedite forme di vicinato.

Ogni capitolo coincide con il monologo di un personaggio con uno specifico registro linguistico, in cui l’italiano standard è contaminato da altre lingue e dialetti. Ad esempio, l’italiano di Anita è appesantito dai detti popolari che immagina di ascoltare dalla voce della madre e dalle citazioni di poeti e filosofi. La lingua di Samir, invece, è caratterizzata dall’inserzione nell’italiano di parole o frasi in arabo. Stefania alterna l’italiano al milanese, cita versi di canzoni pop e fa largo uso di anglismi. Infine, la lingua di Tony rappresenta l’esempio più eclatante di contaminazione, perché mescola continuamente l’italiano, il napoletano e il giamaicano (che a sua volta è già una versione “deformata” dell’inglese). Ogni registro linguistico rappresenta la complessità di un personaggio ma suggerisce anche una totale impossibilità di dialogo: ognuna/o racconta una diversa versione della storia, dal proprio specifico punto di osservazione, senza mai entrare davvero in relazione con gli altri (cfr. Fracassa 2012, p. 86).

I quattro capitoli corrispondono a differenti voci narranti che attraversano lo spazio della città restituendone una fotografia, o meglio, dei fotogrammi che registrano le trasformazioni in atto nei diversi quartieri. Infatti, oltre che dalla fotografia, Kuruvilla prende spunto anche dal linguaggio cinematografico: come nel film Babel di Inarritu, i personaggi del romanzo entrano in relazione tra loro attraverso lo scambio di un oggetto, un letto a soppalco dell’Ikea, che Tony regala ad Anita e Stefania acquista da Samir. È un oggetto di arredamento tipico delle camere in affitto di precari e studenti fuorisede, che però allude anche allo sfruttamento della manodopera migrante nel mercato del lavoro (si pensi alle lotte dei lavoratori della logistica).

A partire dalla definizione di “focalizzazione multipla” introdotta da Gerard Genette, Ugo Fracassa ha individuato alcuni romanzi recenti che propongono “un simile avvicendamento al microfono della narrazione romanzesca”, tra i quali anche Milano, fin qui tutto bene. In questa proliferazione delle voci e dei punti di vista, Fracassa riconosce giustamente “un’intrinseca disponibilità a raccontare certe dinamiche sociali contemporanee”; infatti, “incardinare le proprie storie su indici a tenuta stagna” consente di stabilire un’analogia con “la struttura dei sobborghi ghetto delle nostre metropoli multietniche” (cfr. Fracassa 2013/2014). Emerge così la critica di un modello socio-urbanistico che attribuisce ai soggetti una libertà di azione solo all’interno dei rigidi confini che sono stati loro assegnati.

Anita si autodefinisce come una “meticcia” perché trasgredisce le linee dell’età e del colore. Samir unisce in sé molte caratteristiche negative spesso attribuite ai musulmani: considera le donne come una proprietà privata e ha un figlio che non conosce da una donna italiana, Laura. L’unica milanese doc, Stefania, fotografando il quartiere cinese dopo la rivolta del 2007, sostiene che guardare gli altri, rappresentarli, è un modo per evitare di guardare se stessa e rappresentarsi. Tony, il “finto rasta-gangsta” che secondo Samir non sa nulla né di Rastafari né del ghetto, incarna lo stereotipo dell’emigrante meridionale con una famiglia indolente e chiassosa, inoltre, come ogni vero “badman” odia i “battyboy”, cioè “i froci”. Questi quattro personaggi rappresentano dei “tipi” le cui caratteristiche stereotipate sono spesso esasperate fino all’eccesso, anche ai limiti del politicamente scorretto, ma nel romanzo non c’è mai un giudizio morale sui personaggi e sui loro stili di vita; semplicemente, dalla narrazione emergono sia le contraddizioni sia le potenzialità della metropoli globale.

Kuruvilla è molto abile nello smascherare una certa retorica buonista sul multiculturalismo, rendendo evidente la contrapposizione tra migranti e nativi, tra turisti e abitanti della città. Ad esempio, Samir critica gli italiani che viaggiano per conoscere altre culture, ma poi finiscono per rinchiudersi nei villaggi turistici, e gli intellettuali di sinistra che s’interessano all’esperienza degli immigrati con la curiosità degli entomologi; sostiene che la storia del suo viaggio in gommone fino a Lampedusa per lui è stata un incubo, mentre per Laura dev’essere sembrata una fiaba romantica; infine, non ne può più di sentir parlare d’integrazione, anche perché ha conosciuto molti italiani che nel loro paese non sono per niente integrati. Tony, invece, ammette che “gli immigrati della zona […] un po’ ci assomigliano, e non è che ci piaccia vederci riflessi nei loro specchi” (Kuruvilla 2012, p. 156). Stefania racconta il suo incontro con una ristoratrice cinese che pronuncia una frase emblematica: “‘Noi in Cina queste cose non le mangiamo, le facciamo solo per voi turisti’. Stavo per dirle che in realtà noi [gli italiani], qui a Milano, anche in Paolo Sarpi, siamo nativi, non turisti” (ivi, p. 107, corsivo mio). Questo non detto suggerisce un interrogativo su chi sono gli abitanti della città: in altre parole, quand’è che una persona migrante ottiene finalmente il diritto a essere considerata una cittadina?

Voglio concentrarmi ora su come Kuruvilla rappresenta le differenze di genere e le relazioni tra i suoi personaggi. Alcuni personaggi femminili, come Laura (che ha un figlio da Samir) e Gioia (amica di Stefania), sono schiave della dittatura dell’aperitivo e dell’happy-hour, costrette a essere sempre belle e sorridenti. Sembrano delle Barbie, come la donna americana, bianca e bionda che – in un omonimo racconto della stessa autrice – è contrapposta alla protagonista, Mina, una donna indiana con la cittadinanza italiana; per l’ex fidanzato affascinato dall’India, quest’ultima rappresenta la “sua succursale italiana, facilmente accessibile” (Kuruvilla 2008, p. 11). Come nei precedenti racconti di Kuruvilla, anche in Milano, fin qui tutto bene emergono le differenze di classe e colore tra donne migranti e cittadine, accanto al processo di esotizzazione subìto in particolare dalle donne indiane, specie da parte di quei borghesi progressisti italiani che hanno fatto dell’India un bene di consumo (Romeo 2014, p. 216).

Inoltre, Anita, la donna italo-indiana che narra il primo capitolo, passando davanti a un cinema porno, riflette sul fatto che l’unica forma di comunicazione tra giovani immigrati e vecchi italiani è costituita dalla prostituzione, ma poiché lei non è “né vecchiabianca né giovanenera”, rimane fuori dal gioco, cioè dagli unici scambi possibili tra uomini e donne o tra persone diverse per età, colore o classe sociale: scambi che si basano esclusivamente sul nesso sesso-denaro-potere.

Tony è il tipico macho omofobo e misogino, che pensa di dover tenere sotto controllo la sorella perché non si comporta “come una femmina”. Mentre Pietro – il regista con la voce da donna in un corpo da uomo e col pallino di raccontare la Milano multietnica – si comporta come se fosse scontato che Samir, in quanto immigrato, debba accettare passivamente le sue attenzioni.

Samir racconta che sua madre è femminista e crede che le ragazze debbano decidere liberamente se indossare o meno il velo, contraddicendo lo stereotipo che vorrebbe le donne musulmane come vittime della costrizione patriarcale; poi però sostiene anche che Laura lo sta “addomesticando” e che lui non può permettersi di avere bisogno di lei; sembra che abbia paura di innamorarsi e sentirsi sottomesso, perciò la lascia proprio nel momento in cui lei rimane incinta. Laura e Samir si interrogano sulle relazioni tra uomini e donne, migranti e cittadini, concludendo che i musulmani sposano le italiane per vendicarsi del colonialismo, come se queste relazioni rappresentassero una sorta di risarcimento per le ingiustizie subite.

Infine, Stefania sostiene che il mondo dei cinesi scorre accanto al suo ma senza alcuna possibilità d’incontro: “percorriamo due rette parallele che non si incroceranno mai, se non all’infinito. E laggiù, spesso, ci trovi una motivazione economica” (Kuruvilla 2012, p. 116). L’impressione che si ricava dalle voci dei personaggi/narratori è quella di una totale impossibilità di dialogo, come se le uniche relazioni possibili nella città postcoloniale fossero solo relazioni mercificate – si pensi agli incontri per vendere il soppalco dell’Ikea – o comunque relazioni fondate sul potere, sullo sfruttamento e sulla sopraffazione.

Infine, rimane aperto un interrogativo sull’efficacia della strategia narrativa messa in atto da Kuruvilla in questo romanzo. La proliferazione delle voci e dei punti di vista denota una particolare abilità, da parte dell’autrice, nel maneggiare la complessità dei registri linguistici e delle strutture narrative. Ma questa narrazione plurilingue e multifocale riesce davvero a mettere in discussione la presunta naturalità (e la normatività) dei confini e dei nostri immaginari intorno al genere e all’alterità? Oppure una tale caratterizzazione dei personaggi rischia di irrigidirli in una rappresentazione essenzialista dell’identità?

Provo a rispondere con Rosi Braidotti, che in Soggetto nomade propone la figurazione della poliglotta – una persona che attraversa i confini tra lingue e culture – come “una variante sul tema della coscienza critica nomade”: la poliglotta è una persona in transito tra le lingue, la cui condizione di simultanea appartenenza e non-appartenenza le consente di “resistere alla tentazione di fissarsi in un’unica concezione dell’identità univoca e sovrana”, e di “guardare con sano scetticismo alle identità fissate una volta per tutte e alle lingue madri”, (Braidotti 1995, pp. 12-19). Ovviamente, non tutte le persone poliglotte sono dotate automaticamente di una coscienza nomade; anche perché il nomadismo coincide con “quel tipo di coscienza critica che si sottrae, non aderisce a formule del pensiero e del comportamento socialmente codificate. […] Lo stato nomade – precisa infatti Braidotti – più che dall’atto del viaggiare, è definito dal ribaltamento delle convenzioni date” (ivi, p. 8).

 

 

Note

[1] Ringrazio Kespazio! per una ricerca queer e postcoloniale, per aver organizzato la presentazione del romanzo, nel 2013 a Roma, durante la quale sono emersi alcuni degli spunti critici sviluppati in questo contributo.

 

Bibliografia

Braidotti, R., Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1995

Fracassa, U., Patria e lettere. Per una critica della letteratura postcoloniale e migrante in Italia, Roma, Giulio Perrone, 2012

Fracassa, U., Globalizzazione all’indice: modelli macrotestuali nella narrativa dell’Italia multiculturale, in “Narrativa”, n. 35-36, 2013/2014, pp. 101-111

Kuruvilla, G., Barbie, in Eadem, È la vita, dolcezza, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008, pp. 7-19

Kuruvilla, G., Milano, fin qui tutto bene, Roma-Bari, Laterza, 2012

Mezzadra, S., La condizione postcoloniale. Storia e politica del presente globale, Verona, Ombre Corte, 2008

Romeo, C., Evaporazioni. Costruzioni di razza e nerezza nella letteratura postcoloniale afroitaliana, in L’Italia postcoloniale, a cura di C. Lombardi Diop, C. Romeo, Milano, Le Monnier, 2014, pp. 207-222

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