Skip to content


Paola Di Cori: Ancora sulla storia degli studi di genere

Grazie a Paola Di Cori per aver inserito un commento in questo spazio. Più che un commento, il suo è un intervento prezioso per lucidità, intelligenza e coraggio intellettuale, perciò ho pensato che meritasse maggiore visibilità. Tramite Liliana Ellena, che ringrazio, pubblico anche i file pdf di due articoli che approfondiscono la storia degli studi di genere in Italia:

Grazie ancora all’autrice per aver scelto di condividere questi importanti contributi e buona lettura!

Paola Di Cori

Ancora sulla storia degli studi di genere.
Nomi, linguaggi, contesti che cambiano

Come ho già avuto modo di scrivere, condivido le posizioni espresse dall’appello di Laura Corradi e dal documento Dal margine degli studi di genere firmato da ricercatrici di varie città. Vorrei aggiungere alcune osservazioni a quanto ha scritto Alisa Del Re a proposito del corso su Politiche di Pari Opportunità avviato a Padova nel 2003-04.
Per brevità sono costretta a riassumere problemi complessi, ma almeno su due punti mi interessa intervenire. Il primo si riferisce alla storia degli studi di genere in Italia; il secondo ai tanti nomi che li hanno definiti e chiamati nel corso degli oltre 40 anni della loro esistenza. I due aspetti sono collegati in maniere tutt’altro che casuali. E’ indispensabile a questo punto “un po’ di storia”, per riprendere Alisa Del Re; altrimenti si potrebbe pensare che i baroni cattivi, le censure e la marginalità siano diventati una dura realtà soprattutto negli ultimi anni, accelerati dal taglio dei finanziamenti alle università; una beffa estrema della emergenza economica del paese. Sarebbe come credere che la crisi politica dell’Italia è solo colpa di Berlusconi.
Com’è facile immaginare, le cose sono un po’ più complicate, sia in politica che riguardo agli studi di genere.

Per le e i più giovani, e per sommi capi, è bene sapere che si tratta di una storia niente affatto recente in Italia. Ricordo in proposito che una prima rassegna di quanto si stava facendo fin dai primi anni ’70 era stata pubblicata in inglese più di 30 anni fa, a cura di Laura Balbo e Yasmine Ergas (Women’s Studies in Italy, 1979, Women’s Press, Boston). Qualche anno più tardi, nel 1987, il convegno di Modena intitolato La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia (le relazioni sono state curate da Maria Cristina Marcuzzo e Anna Rossi-Doria, Rosenberg & Sellier) esibiva l’enorme quantità di ricerche e di insegnamenti che da tempo esistevano ormai in tutto il paese. Entrambe queste pubblicazioni comprendevano apporti riguardanti settori disciplinari diversi che andavano dalle scienze sociali a quelle esatte, dalla filosofia alla letteratura, al diritto, alla medicina.
Come ho sostenuto in più di una occasione, e vorrei insistere su questo punto, si lavorava ‘en travesti’; si insegnavano corsi e seminari, si seguivano tesi e tesine, costruivano programmi di ricerca e organizzavano incontri nazionali e internazionali, mascherando il fatto che oggetti e soggetti di studio erano donne, spesso legati alla tradizione femminista. In effetti, sarebbe stato impossibile ottenere corsi ufficialmente inclusi nell’ordine degli studi, per non dire cattedre, di studi di genere. Tra le altre cose, si trattava di uno stratagemma che non riguardava soltanto le donne e i loro studi. Anche chi voleva occuparsi soltanto della biografia di un oscuro poeta del ‘500, o della festa al santo patrono di un piccolo paese della Basilicata, lo faceva al riparo dell’ombrello di un corso generale approvato dalla facoltà e dal senato accademico. D’altra parte, era abitudine che ciascuno/a insegnasse e studiasse ciò che voleva e come voleva. Si trattava di una concezione della ‘libertà docente’ quanto mai ridicola, ma in molte facoltà umanistiche (e non solo) è tutt’ora in vigore; altrimenti, come spiegarsi l’ignoranza crescente dei nostri laureati?
Fin verso la fine degli anni ’80 non si sapeva bene neanche come chiamare le cose che studiavamo e insegnavamo; e infatti ciascuna le chiamava a suo piacimento. La parola ‘genere’ cominciava a circolare solo allora, e il suo significato rimase a lungo sufficientemente vago e comprensivo di tante cose diverse; poteva essere utilizzato per ammorbidire oscurantismi ed opposizioni ad accogliere le novità, come anche servire a nascondere ambivalenze e perplessità teoriche e politiche.
Dalla fine degli anni ’80 in avanti ci fu un rovesciamento interessante tra le donne che questi studi li praticavano: mentre almeno fino al 1987 (con l’eccezione della sociologia) protagoniste erano state soprattutto ricercatrici e precarie, una serie di concorsi promossero un certo numero di femministe come associate e ordinarie. In poco tempo si creò una situazione dove gerarchie, appartenenze sociali e familiari legate all’establishment erano dominanti. L’influenza di chi non apparteneva almeno alle due fasce superiori della docenza si indebolì fino a scomparire del tutto, e furono favoriti i legami di interesse tra la casta patriarcale e alcune accademiche più fortunate e ambiziose. Tra i fenomeni cospicui del decennio dei ’90 ci fu l’impiantarsi di una doppia morale in seno a coloro che studiavano generi e differenze sessuali nella disciplina di provenienza: da un lato c’era la causa comune delle donne con le sue mobilitazioni, convegni e studi specifici; dall’altro, la realtà del tempo che passava indicava l’opportunità di impegnarsi per una affermazione personale da perseguire individualmente e in segreto. Tra le conseguenze, non ci fu nessuna reale mobilitazione nazionale e locale per introdurre gli studi di genere; nessuna sembrava veramente interessata a chiederli e a impegnarsi per ottenerli.
Intanto, nel corso degli anni ’90 si crearono due importanti associazioni (delle storiche e delle letterate) e nacque la rete Athena tra le donne europee; un primo convegno a Coimbra nel 1995 lanciava un programma comune di studi di genere, al quale l’Italia vi prese parte ‘come poteva’; gran parte delle docenti italiane che si occupavano di donne non vi partecipò. L’iniziativa dentro le università italiane era bloccata da una situazione assai arretrata dal punto di vista didattico e organizzativo, che tra le altre cose scoraggiava quegli approcci interdisciplinari su cui nei paesi anglofoni erano fioriti gli studi di genere.

Intorno al 2000
Fino al nuovo secolo, quando ministra delle Pari opportunità venne nominata Laura Balbo, la quale contrattò con i rettori la possibilità di introdurli in Italia, in nessuna università italiana, salvo rare eccezioni, era stato possibile insegnare corsi con la denominazione ufficialmente accettata di “studi di genere” o “studi delle donne”; non parliamo poi di quelli gay o queer. Significa forse che si interruppero le ricerche o gli insegnamenti che ormai da decenni si svolgevano nel paese in quei settori? Certo che no. Ciascuna/o fece come le/gli pareva e piaceva: li chiamava come voleva, e li accettava o rifiutava per i motivi più diversi – posizioni ideologiche contrarie all’introduzione di questi studi nelle università (come la Libreria delle Donne di Milano che adoperò tutta la propria influenza per evitare questa eventualità, spesso appellandosi all’intimo ribrezzo nei confronti del sintagma ‘pari opportunità’, senza avvertire che anche questa era una vuota espressione dai mille significati diversi); ambivalenza delle accademiche rispetto a danni e/o benefici degli studi di genere per la propria carriera; last but not least, tradizionale oscurantismo della casta che continuerà nella sua paleolitica opposizione fino al 2000, quando sarà costretta a fare buon viso a cattivo gioco per via della riforma del 3+2, della crisi economica, delle raccomandazioni che arrivavano dalla comunità europea.
Nel frattempo si sono bruciate occasioni preziose, si è rafforzata la dialettica casta/suddite, le generazioni di donne giovani interessate a questi studi, quando potevano, cominciarono fin dagli anni ’90 ad andare a studiare, anche soltanto per pochi mesi, all’estero; molte in Olanda ma non solo. Intanto viene spontaneo dire: grazie Utrecht, grazie Rosi Braidotti, grazie università anglofone ed europee dove hanno studiato e continuano a studiare argomenti relativi alle differenze sessuali centinaia di giovani italiani/e, dove gli studi di genere sono visibili: in molte università d’Italia non si vedono, le giovani donne e uomini non sanno dove trovarli.

Criticare l’accademia
Verso la fine degli anni ’90 il clima dentro le università era diventato irrespirabile per donne e uomini, ma soprattutto per chi praticava e avrebbe voluto praticare un po’ meglio e un po’ di più gli studi di genere.
All’università di Torino, dove allora insegnavo presso il dipartimento di storia, ed esisteva da diversi anni il CIRSDE, insieme a Franca Balsamo, ricercatrice del dipartimento di scienze sociali, proponemmo di curare una pubblicazione sulla situazione delle donne nell’università. Fin dall’inizio avevamo chiaro l’obiettivo di cominciare ad aprire un primo spiraglio nel muro esistente di silenzi, omertà, complicità, emarginazione e disagi. Ne venne fuori una piccola pubblicazione all’interno di una serie intitolata d&r (donne e ricerche) del Cirsde: il n.9 del 1999. Dire che il fascicolo è stato salutato con freddezza e ostilità è poco. Nessuna collega ha voluto presentarlo, e per una strana coincidenza, la serie cessò di uscire del tutto dopo quel numero.
Nel giugno 2006, avendo a disposizione alcuni fondi MIUR (c’erano ancora!) organizzai a Urbino, dove ho insegnato per molti anni, un incontro sulla situazione della didattica nelle scuole e nelle università, con la collaborazione del Centro Internazionale di Semiotica, di esperti di apprendimento e insegnanti di scuola, e di un gruppo di giovani antropologhi/e della Bicocca che qualche mese prima del convegno pubblicarono alcuni contributi sull’argomento nella loro rivista on-line “Achab” (n.7, febbraio 2006).
Nel 2010 “Achab” volle riprendere il tema della crisi delle università (era già uscito il libro di Rizzo e Stella, e – per la prima volta! – ormai tutti si sentivano autorizzati a parlare di come funzionava male l’università italiana, di quanto era antiquata, familistica, inefficiente; sessista e omofoba non si riusciva ancora a dire). “Achab” chiese a me e Franca Balsamo di contribuire ancora sul tema degli studi di genere, e così ne approfittammo per ripubblicare quanto avevamo scritto nel 1999 con l’aggiunta di una premessa. Potete leggere gli articoli sul numero XV, settembre 2010 (scarica il PDF).
Credo sia importante che questi sforzi non rimangano del tutto sconosciuti a chi lavora o vorrebbe lavorare nel campo degli studi di genere e deve affrontare ancora una volta ostacoli di natura simile a quelli di 30 o 40 anni fa.

Posted in studi delle donne e di genere.

Tagged with , .


2 Responses

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. sonia says

    grazie franca! sono d’accordo con te, il saggio di paola di cori è bellissimo e anche molto utile per chi intraprende oggi questi studi, per comprendere quale storia e quale percorso politico c’è dietro.
    grazie anche a te per il tuo contributo. spero che i vostri interventi servano anche ad avviare quel dibattito pubblico di cui si sente davvero il bisogno in questo momento in italia…
    approfitto anche per segnalare la buona notizia: il corso di studi di genere all’unical è stato ripristinato: http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2013/05/13/vittoria-ripristinato-il-corso-di-studi-di-genere-allunical/
    sonia

  2. Franca Balsamo says

    Bellissimo il saggio di Paola di Cori a Grenoble. Mi ha fatto riflettere sulla questione della “simulazione” e della mia esperienza torinese. E’ vero che la Grandi Studiose (di wstudies) hanno insegnato per anni, all’epoca (fine anni settanta, anni ottanta e oltre) “studi delle donne” nella dissimulazione e questo è stato indubbiamente un compromesso che ha “compromesso” tutto lo sviluppo degli studi in Italia. Un’esperienza che però non abbiamo condiviso noi più “giovani” (accademicamente) – insieme a me alcune ricercatrici politologhe prevalentemente – che fin dall’inizio ci siamo presentate in facoltà come nei dipartimenti a viso scoperto – per modo di dire, perché in realtà avevamo molta paura del modo in cui venivameno emarginate e quindi ce ne stavamo molto in quesi margini e nell’ombra (dove eravamo abbastanza libere di fare quel che volevamo: nei nostri studioli o anche nelle case – penso a anni passati con tante giovani studiose anche extra universitarie, poi perse di vista). Ma la nostra radice era diversa da quella che hanno avuto i w.s/g.s. in altre città: per noi era stato cruciale, per la possibilità di metterci a studiare e a inventare, non solo il primo movimento femminista (e le sue teorie) ma le pratiche “eversive” delle donne del sindacato, da cui nacquero le 150 ore. I nostri studi universitari qui a Torino sono nati in gran parte lì: nel mondo del lavoro, nella società operaia e sindacale “femminista” (di “coda”). Ora dopo aver letto il saggio di Paola mi chiedo se anche questa origine più proletaria (a proposito di classe) non abbia contribuito a rafforzare a raddoppiare l’emarginazione accademica degli studi “delle donne”. A Torino almeno in parte gli studi delle donne avevano un’origine femminista e proletaria: come potevano avere accesso (se non dopo una durissima lotta per il CIRSDe) in un’accademia totalmente maschile e sufficientemente alto-borghese? Mah?! Questa storia dell’incrocio tra dissimulazione, compromessi, classe sociale e gender (per non parlare della questione etnica: totalmente escluse le donne neo-immigrate o neo-cittadine da un’accademia sempre più chiusa da muri inaccessibili) va ri-pensata e aggiornata.