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#VogliamoStudiDiGenere: aggiornamenti da FaS

Ieri il blog collettivo Femminismo a Sud, che aveva lanciato l’appello per reintrodurre il corso di studi di genere cancellato dall’offerta formativa dell’università della Calabria, ha pubblicato un post che ricostruisce tutta la vicenda (compresi i link ai diversi interventi che si sono succeduti finora). In particolare, il post contiene anche un intervento di Laura Corradi, che riporto di seguito.

Vi scrivo per valutare gli esiti della petizione finora raggiunti e per quanto riguarda il comunicato del mio Dipartimento a proposito della soppressione del mio corso. Credo che la vostra iniziativa di raccolta di firme sia stata positiva, anche se per il momento non ha ottenuto l’esito sperato di stimolare un ripensamento nella direzione di un ripristino del corso di ‘Studi di Genere’. Le reazioni di solidarietà sono state molteplici ed hanno messo in evidenza che esiste un trend nazionale verso la cancellazione dei corsi che riguardano le donne e le diversità, che sarebbe giustificato dalla necessità di operare tagli dell’offerta formativa. In questi giorni si è creato un vero e proprio movimento per la difesa degli ‘studi di genere’.

Ci sono state anche espressioni di solidarietà tiepide o generiche, che ci dovrebbero far riflettere collettivamente e serenamente su percorsi istituzionali e relazioni di potere fra donne – affinché le nostre differenze non divengano un fattore di vulnerabilità ma un elemento di confronto e crescita. Lunedì 22 aprile le firme sono state consegnate sia al Rettore che al Direttore del mio Dipartimento – ma in un clima che non ha consentito una discussione pacata di quanto accaduto – ovvero la cancellazione del mio corso ed anche il fatto che io non ne fossi a conoscenza. Non mi è stato dato diritto di parola – perché il punto non era in discussione all’ordine del giorno – e nemmeno facoltà di replica a quanto veniva detto, e che riguardava la questione. Il consiglio si è concluso senza che vi fosse la menzione di un documento a nome del Dipartimento – che non ho nemmeno ricevuto per via istituzionale, ma solo da voi poco fa.
Il comunicato del mio Dipartimento, nei toni e nei contenuti, sembra andare in direzione opposta ad una rinegoziazione, ad un accordo – e me ne dispiace.
Per quanto riguarda le questioni formali: ribadisco che non ero a conoscenza del fatto che oltre due anni fa (il 15 febbraio 2011) mentre ero assente giustificata per motivi di ricerca, si siano decise le sorti di uno dei miei corsi, ovvero ‘Studi di Genere’. Argomento, quello della soppressione, che è stato dibattuto in un paio di occasioni, anche con toni accaldati, ma senza che alla fine vi fosse un processo decisionale in mia presenza. Mentre nei documenti che mi sono stati inviati dalla presidenza risultavo assente giustificata, ricompare la mia firma di presenza alcuni mesi più tardi durante le riunioni estive di giugno e luglio, quando si trattava di licenziare il manifesto degli studi. Qui c’è stato un mio errore – dovuto alla routine ma anche ad una imperdonabile fiducia nei confronti dell’istituzione – riguardo la firma che ci viene richiesta alla fine di ogni anno accademico per pubblicare l’offerta formativa per gli/le studenti degli anni successivi, e che concerne tutti i corsi di laurea. Non ho controllato, così come non controllo le date quando firmo, per pura buona fede: non avrei mai pensato che dai documenti di tale offerta formativa era stato tolto il mio corso, senza che mi fosse comunicata la decisione, senza che ne fossi informata almeno verbalmente. In inglese lo chiamano uninformed consent (consenso non informato).
Quindi non c’è stata alcuna votazione (tanto meno ‘unanime’) riguardo la cancellazione del mio corso. E non vi è traccia di tale votazione nei verbali, né potrebbe esservi, poiché è ovvio che avrei votato NO anche da sola, alla soppressione di ‘Studi di Genere’. Sulla correttezza o meno delle procedure decisionali, così come sul fatto stesso della cancellazione (non ‘presunta’ come dice il comunicato, ma reale) di ‘studi di genere’ che il prossimo anno non verrà attivato – è stata depositata una interrogazione parlamentare che farà chiarezza sulle questioni relative alla trasparenza ma soprattutto alla pertinenza – ovvero se era davvero necessario chiudere questo corso e mantenere, tanto per dire, ‘famiglia e mutamento’. Vi ringrazio per il sostegno e resto fiduciosa nell’evolversi della situazione. Laura Corradi

Posted in studi delle donne e di genere.

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3 Responses

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  1. sonia says

    grazie! ti sono davvero molto grata per questa preziosa ricostruzione.
    ora la pubblico in un post a sé stante perché abbia la visibilità che merita.
    sonia

  2. Paola Di Cori says

    Paola Di Cori

    Ancora sulla storia degli studi di genere. Nomi, linguaggi, contesti che cambiano

    Come ho già avuto modo di scrivere, condivido le posizioni espresse dall’appello di Laura Corradi e dal documento Dal margine degli studi di genere firmato da ricercatrici di varie città. Vorrei aggiungere alcune osservazioni a quanto ha scritto Alisa Del Re a proposito del corso su Politiche di Pari Opportunità avviato a Padova nel 2003-04.
    Per brevità sono costretta a riassumere problemi complessi, ma almeno su due punti mi interessa intervenire. Il primo si riferisce alla storia degli studi di genere in Italia; il secondo ai tanti nomi che li hanno definiti e chiamati nel corso degli oltre 40 anni della loro esistenza. I due aspetti sono collegati in maniere tutt’altro che casuali. E’ indispensabile a questo punto “un po’ di storia”, per riprendere Alisa Del Re; altrimenti si potrebbe pensare che i baroni cattivi, le censure e la marginalità siano diventati una dura realtà soprattutto negli ultimi anni, accelerati dal taglio dei finanziamenti alle università; una beffa estrema della emergenza economica del paese. Sarebbe come credere che la crisi politica dell’Italia è solo colpa di Berlusconi.
    Com’è facile immaginare, le cose sono un po’ più complicate, sia in politica che riguardo agli studi di genere.
    Per le e i più giovani, e per sommi capi, è bene sapere che si tratta di una storia niente affatto recente in Italia. Ricordo in proposito che una prima rassegna di quanto si stava facendo fin dai primi anni ’70 era stata pubblicata in inglese più di 30 anni fa, a cura di Laura Balbo e Yasmine Ergas (Women’s Studies in Italy, 1979, Women’s Press, Boston). Qualche anno più tardi, nel 1987, il convegno di Modena intitolato La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia (le relazioni sono state curate da Maria Cristina Marcuzzo e Anna Rossi-Doria, Rosenberg & Sellier) esibiva l’enorme quantità di ricerche e di insegnamenti che da tempo esistevano ormai in tutto il paese. Entrambe queste pubblicazioni comprendevano apporti riguardanti settori disciplinari diversi che andavano dalle scienze sociali a quelle esatte, dalla filosofia alla letteratura, al diritto, alla medicina.
    Come ho sostenuto in più di una occasione, e vorrei insistere su questo punto, si lavorava ‘en travesti’; si insegnavano corsi e seminari, si seguivano tesi e tesine, costruivano programmi di ricerca e organizzavano incontri nazionali e internazionali, mascherando il fatto che oggetti e soggetti di studio erano donne, spesso legati alla tradizione femminista. In effetti, sarebbe stato impossibile ottenere corsi ufficialmente inclusi nell’ordine degli studi, per non dire cattedre, di studi di genere. Tra le altre cose, si trattava di uno stratagemma che non riguardava soltanto le donne e i loro studi. Anche chi voleva occuparsi soltanto della biografia di un oscuro poeta del ‘500, o della festa al santo patrono di un piccolo paese della Basilicata, lo faceva al riparo dell’ombrello di un corso generale approvato dalla facoltà e dal senato accademico. D’altra parte, era abitudine che ciascuno/a insegnasse e studiasse ciò che voleva e come voleva. Si trattava di una concezione della ‘libertà docente’ quanto mai ridicola, ma in molte facoltà umanistiche (e non solo) è tutt’ora in vigore; altrimenti, come spiegarsi l’ignoranza crescente dei nostri laureati?
    Fin verso la fine degli anni ’80 non si sapeva bene neanche come chiamare le cose che studiavamo e insegnavamo; e infatti ciascuna le chiamava a suo piacimento. La parola ‘genere’ cominciava a circolare solo allora, e il suo significato rimase a lungo sufficientemente vago e comprensivo di tante cose diverse; poteva essere utilizzato per ammorbidire oscurantismi ed opposizioni ad accogliere le novità, come anche servire a nascondere ambivalenze e perplessità teoriche e politiche.
    Dalla fine degli anni ’80 in avanti ci fu un rovesciamento interessante tra le donne che questi studi li praticavano: mentre almeno fino al 1987 (con l’eccezione della sociologia) protagoniste erano state soprattutto ricercatrici e precarie, una serie di concorsi promossero un certo numero di femministe come associate e ordinarie. In poco tempo si creò una situazione dove gerarchie, appartenenze sociali e familiari legate all’establishment erano dominanti. L’influenza di chi non apparteneva almeno alle due fasce superiori della docenza si indebolì fino a scomparire del tutto, e furono favoriti i legami di interesse tra la casta patriarcale e alcune accademiche più fortunate e ambiziose Tra i fenomeni cospicui del decennio dei ’90 ci fu l’impiantarsi di una doppia morale in seno a coloro che studiavano generi e differenze sessuali nella disciplina di provenienza: da un lato c’era la causa comune delle donne con le sue mobilitazioni, convegni e studi specifici; dall’altro, la realtà del tempo che passava indicava l’opportunità di impegnarsi per una affermazione personale da perseguire individualmente e in segreto. Tra le conseguenze, non ci fu nessuna reale mobilitazione nazionale e locale per introdurre gli studi di genere; nessuna sembrava veramente interessata a chiederli e a impegnarsi per ottenerli.
    Intanto, nel corso degli anni ’90 si crearono due importanti associazioni (delle storiche e delle letterate) e nacque la rete Athena tra le donne europee; un primo convegno a Coimbra nel 1995 lanciava un programma comune di studi di genere, al quale l’Italia vi prese parte ‘come poteva’; gran parte delle docenti italiane che si occupavano di donne non vi partecipò. L’iniziativa dentro le università italiane era bloccata da una situazione assai arretrata dal punto di vista didattico e organizzativo, che tra le altre cose scoraggiava quegli approcci interdisciplinari su cui nei paesi anglofoni erano fioriti gli studi di genere.

    Intorno al 2000
    Fino al nuovo secolo, quando ministra delle Pari opportunità venne nominata Laura Balbo, la quale contrattò con i rettori la possibilità di introdurli in Italia, in nessuna università italiana, salvo rare eccezioni, era stato possibile insegnare corsi con la denominazione ufficialmente accettata di “studi di genere” o “studi delle donne”; non parliamo poi di quelli gay o queer. Significa forse che si interruppero le ricerche o gli insegnamenti che ormai da decenni si svolgevano nel paese in quei settori? Certo che no. Ciascuna/o fece come le/gli pareva e piaceva: li chiamava come voleva, e li accettava o rifiutava per i motivi più diversi – posizioni ideologiche contrarie all’introduzione di questi studi nelle università (come la Libreria delle Donne di Milano che adoperò tutta la propria influenza per evitare questa eventualità, spesso appellandosi all’intimo ribrezzo nei confronti del sintagma ‘pari opportunità’, senza avvertire che anche questa era una vuota espressione dai mille significati diversi); ambivalenza delle accademiche rispetto a danni e/o benefici degli studi di genere per la propria carriera; last but not least, tradizionale oscurantismo della casta che continuerà nella sua paleolitica opposizione fino al 2000, quando sarà costretta a fare buon viso a cattivo gioco per via della riforma del 3+2, della crisi economica, delle raccomandazioni che arrivavano dalla comunità europea.
    Nel frattempo si sono bruciate occasioni preziose, si è rafforzata la dialettica casta/suddite, le generazioni di donne giovani interessate a questi studi, quando potevano, cominciarono fin dagli anni ’90 ad andare a studiare, anche soltanto per pochi mesi, all’estero; molte in Olanda ma non solo. Intanto viene spontaneo dire: grazie Utrecht, grazie Rosi Braidotti, grazie università anglofone ed europee dove hanno studiato e continuano a studiare argomenti relativi alle differenze sessuali centinaia di giovani italiani/e, dove gli studi di genere sono visibili: in molte università d’Italia non si vedono, le giovani donne e uomini non sanno dove trovarli.

    Criticare l’accademia
    Verso la fine degli anni ’90 il clima dentro le università era diventato irrespirabile per donne e uomini, ma soprattutto per chi praticava e avrebbe voluto praticare un po’ meglio e un po’ di più gli studi di genere.
    All’università di Torino, dove allora insegnavo presso il dipartimento di storia, ed esisteva da diversi anni il CIRSDE, insieme a Franca Balsamo, ricercatrice del dipartimento di scienze sociali, proponemmo di curare una pubblicazione sulla situazione delle donne nell’università. Fin dall’inizio avevamo chiaro l’obiettivo di cominciare ad aprire un primo spiraglio nel muro esistente di silenzi, omertà, complicità, emarginazione e disagi. Ne venne fuori una piccola pubblicazione all’interno di una serie intitolata d&r (donne e ricerche) del Cirsde: il n.9 del 1999. Dire che il fascicolo è stato salutato con freddezza e ostilità è poco. Nessuna collega ha voluto presentarlo, e per una strana coincidenza, la serie cessò di uscire del tutto dopo quel numero.
    Nel giugno 2006, avendo a disposizione alcuni fondi MIUR (c’erano ancora!) organizzai a Urbino, dove ho insegnato per molti anni, un incontro sulla situazione della didattica nelle scuole e nelle università, con la collaborazione del Centro Internazionale di Semiotica, di esperti di apprendimento e insegnanti di scuola, e di un gruppo di giovani antropologhi/e della Bicocca che qualche mese prima del convegno pubblicarono alcuni contributi sull’argomento nella loro rivista on-line “Achab” (n.7, febbraio 2006).
    Nel 2010 “Achab” volle riprendere il tema della crisi delle università (era già uscito il libro di Rizzo e Stella, e – per la prima volta! – ormai tutti si sentivano autorizzati a parlare di come funzionava male l’università italiana, di quanto era antiquata, familistica, inefficiente; sessista e omofoba non si riusciva ancora a dire). “Achab” chiese a me e Franca Balsamo di contribuire ancora sul tema degli studi di genere, e così ne approfittammo per ripubblicare quanto avevamo scritto nel 1999 con l’aggiunta di una premessa. Potete leggere gli articoli sul numero XV, settembre 2010 (su richiesta verrà anche spedito un PDF).
    Credo sia importante che questi sforzi non rimangano del tutto sconosciuti a chi lavora o vorrebbe lavorare nel campo degli studi di genere e deve affrontare ancora una volta ostacoli di natura simile a quelli di 30 o 40 anni fa.

    pdicori@libero.it

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  1. Paola Di Cori, Ancora sulla storia degli studi di genere | Sguardi sulle Differenze linked to this post on 14 Maggio 2013

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