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Nazionalismo, colonialismo e razzismo in Italia

Venerdì 15 giugno ore 18.30 al caffè letterario della Casa internazionale delle donne, si terrà un seminario dal titolo Nazionalismo, colonialismo e razzismo in Italia: un approccio di genere fra storia e antropologia. Coordina Isabella Peretti e partecipano alcune delle autrici di Femministe a parole. Grovigli da districare: Catia Papa, Annamaria Rivera, Anna Vanzan, Stefania Vulterini.

Il “fardello della donna bianca”, di cui parla Annamaria Rivera in “Relativismo culturale”, cioè “la missione civilizzatrice che imporrebbe di emancipare, anche contro la loro volontà, le donne indigene”, assunta dalle “colonizzatrici” nei due secoli scorsi, si ripropone oggi nelle legislazioni contro l’uso del “velo” e nelle guerre giustificate tramite la retorica secondo cui occorre liberare dall’oppressione le donne altre.
Del passato coloniale parla Catia Papa in “Colonizzatrici”: il “fardello imperiale” chiedeva alle donne colonizzatrici, alle viaggiatrici, alle mogli al seguito dei colonizzatori di difendere la purezza della “razza”, di contribuire al progresso dei “popoli primitivi”, di moralizzare all’insegna dei valori “materni” la vita e le relazioni nelle colonie.
“Né innocenti, né colluse” ma al centro degli imperi, o meglio al “margine” dal centro, sostiene Catia Papa. Ma la continuità tra l’adesione di molte alla guerra in Libia e al “patriottismo coloniale”, la partecipazione poi alla Grande Guerra e infine il sostegno attivo al regime fascista ci introducono alla specificità del percorso delle “Donne di destra” in Italia, tema affrontato nella voce scritta da Isabella Peretti, che, sfatando ogni mito di presunte virtù naturali delle donne, coglie i nessi tra la nostalgia del passato fascista e un presente che si manifesta anche attraverso diversificate forme di razzismo.
Anna Vanzan affronta la colonizzazione dal punto di vista delle colonizzate e della loro partecipazione alle lotte di liberazione nazionale: “il nazionalismo è un’arma a doppio taglio (…) sovrapponendo le donne alla patria, si ritorce contro di loro: proteggere la patria/donna significa proteggerla dallo sguardo dell’invasore, dal contatto con l’Altro, limitarne la libertà”. Lottare per i propri diritti nei paesi colonizzati o postcoloniali viene considerato un tradimento della nazione e un’adesione all’Occidente, che userebbe le femministe laiche come “cavalli di Troia, per penetrare nelle società musulmane al fine di demolirle”.
Centrale, quindi, sia a Nord che a Sud, il rapporto donne-nazione.
Lo affrontano Tamar Pitch e Ambra Pirri, citate da Isabella Peretti, in “Madre-patrie”.

“La nazione ha molto a che fare con le donne, ma niente con la loro libertà. Se Stato e diritto moderni – criticabili perché si fondano su un soggetto neutro e disincarnato – sono pur stati strumenti di emancipazione, la nazione, viceversa, è sempre stata un ostacolo per noi e per la nostra libertà…La libertà femminile si fonda sulla possibilità di disporre di sé, della propria sessualità e fertilità… Ora, è proprio questo che è impossibile per la tenuta e la continuità della nazione, per gli imperativi (demografici, patriottici, di custodia delle tradizioni) cui il corpo delle donne deve essere sottomesso … I desideri e la volontà della singola donna sono sottomessi a quelli di chi decide per il «bene della nazione»(Pitch).
«Invece di avere diritto a essere l’incarnazione di se stessa, e dunque a vivere e a scegliere la propria vita, una donna deve comportarsi in un certo modo poiché rappresenta qualcos’altro. E che le donne debbano incarnare l’identità della nazione, della patria – così affine al patriarcato con i suoi valori militaristi e sessisti – è davvero aggiungere al danno anche le beffe»(Pirri).
In Italia in particolare i valori nazionali-risorgimentali, tanto celebrati quest’anno, sono di origine romantica e si richiamavano alla lingua, alla religione, e, affidandosi alla natura e alla genealogia, al suolo, alla stirpe, alla razza: valori tossici per donne e per uomini, sostiene giustamente lo storico Alberto Mario Banti.
Quando parliamo di integrazione e di cittadinanza per le immigrate e gli immigrati nel nostro Paese (vedi le voci di Sonia Sabelli, “Tricolore. Bandiere pericolose”, e di Silvia Cristofori, “Integrazione”) dobbiamo cogliere il carico di contraddizioni che questa retorica eredità romantico-risorgimentale riattualizzata apre rispetto sia all’affermazione della propria “italianità” da parte delle seconde generazioni di origine migratoria, sia rispetto all’italianizzazione forzata e alla presunta superiorità della cultura italiana, agita dalla gran parte delle forze politiche italiane.
Sulla problematica della definizione della propria identità da parte di cittadine e cittadini di un presunto colore altro, di una presunta cultura altra si sofferma Stefania Vulterini nella voce “Noir. La pelle che conta”, riferendosi in particolare ai Neri di Francia, per i quali essere nero non è un’essenza, non è una cultura, ma il prodotto di una discriminazione sociale.
Al termine di questo percorso possibile tra alcune voci del volume, torniamo quindi alla problematica del razzismo contemporaneo affrontata da Annamaria Rivera, rispetto al quale il relativismo culturale segna una “rottura radicale”, così come rispetto all’etnocentrismo e a un universalismo, “sempre più sottomesso all’idea della superiorità della civiltà occidentale”. La “molteplicità culturale” va presa sul serio, perché “l’universalità va intesa come un verbo, non come un sostantivo, come un processo reciproco, non lineare e sempre aperto” . Il caso delle MGF, e in generale delle mutilazioni e/o modificazioni corporee, riproposto qui da Rivera è emblematico di questa non linearità e di un possibile ascolto reciproco.

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