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Recensione a Fuori centro

Fuori centro. Percorsi postcoloniali nella letteratura italiana, a cura di ROBERTO DEROBERTIS, Aracne – Roma, 2010
recensione di Silvia Camilotti, pubblicata in «Strumenti cres», n. 56, maggio 2011, pp. 35-37

Il volume curato dallo studioso Roberto Derobertis raccoglie e sviluppa alcuni importanti spunti su un tema troppo a lungo ignorato dagli studi di italianistica in particolare, quale il rapporto tra colonialismo/postcolonialismo e la letteratura italiana. I due elementi che attraversano i contributi – caratterizzati ciascuno da una propria specificità – si possono individuare nella continua tensione tra passato e presente e nel ritorno del rimosso. Derobertis colloca i saggi all’interno della cornice del postcoloniale, inteso non in senso cronologico come fase successiva al colonialismo bensì come «una critica a ciò che è stato storicamente il colonialismo e a ciò che, in maniera pervasiva e disomogenea sul Pianeta, esso continua a produrre nelle forme di neocolonialismo e globalizzazione liberista» (pag. 9).
Inteso dunque come strategia critica, esso «prende in esame il rimescolamento delle tradizionali coppie antinomiche della modernità eurocentrica (centro/periferia, città/campagna, modernità/tradizione) per intercettare l’irruzione di nuove soggettività, la decadenza dei canoni culturali consolidati e la necessaria ridefinizione delle discipline accademiche su basi “nazionali”» (pag. 10).

I sette contributi raccolti, introduzione del curatore compresa, accendono l’attenzione su voci e esperienze a lungo rimaste marginali e mettono in discussione una concezione rigida di canone e di ambiti disciplinari. Tale volume, importante anche per l’apparato bibliografico che ciascun saggio offre, fa proprio quell’approccio interdisciplinare che permette di indagare un tema più a fondo e da molteplici prospettive: l’analisi di testi letterari non prescinde infatti da uno sguardo sulla storia e da una prospettiva attenta alle questioni di genere e razza.
Fuori centro riconsegna centralità al tema, rimosso, del colonialismo italiano, indaga le opere di autori e autrici migranti e mostra come l’identità italiana, sfaccettata e plurale, nasca anche dall’incontro/scontro coloniale e da questa esperienza sia stata indelebilmente segnata. Una riflessione che giunge al momento giusto, nell’anno della celebrazione dei 150 anni dell’unità italiana, a rischio di «celebrazione acritica» (pag. 11).
Sintetizza bene, Derobertis, il senso del suo volume, quando scrive che «non si tratta di museificare il colonialismo, né di leggerne l’archivio ad uso e consumo del presente, quanto piuttosto di produrre un triplice movimento di ricordo, revisione e trasgressione» (pag. 31).
I saggi raccolti si collocano in tale prospettiva di ricordo, revisione e trasgressione, a partire da una pluralità di temi e testi. Cristina Lombardi–Diop rilegge Mal d’Africa. Romanzo storico, di Riccardo Bacchelli mettendo in discussione l’interpretazione accreditata di romanzo anticoloniale. Tale testo ha infatti contribuito a avvallare il mito degli “italiani brava gente”, a rafforzare la retorica del buon selvaggio e a conferire carattere universale e leggendario alle gesta di Gaetano Casati, la cui esperienza di geografo e esploratore in Africa equatoriale è ricostruita da Bacchelli. Il suo romanzo, uscito a metà degli anni Trenta, nel prendere le distanze dal contesto contemporaneo (siamo in piena preparazione militare per l’occupazione dell’Etiopia) contribuisce a quella «amnesia storica dell’esperienza coloniale che ancora oggi caratterizza la nostra attuale condizione post–coloniale» (pag. 43). Lombardi–Diop mette in atto una strategia di revisione di una lettura consolidata di un romanzo italiano rappresentativa della ancora presente rimozione e indicibilità della storia coloniale.
Sull’immagine di una «storia occidentale bloccata» (pag. 61), che non comprende il nesso passato–presente, ritorna Bruno Brunetti nel saggio Modernità malata. Note su Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, che si rifà al noto romanzo conradiano individuando in esso un paradigma che permane in molta della letteratura contemporanea occidentale che si confronta con l’altro: il fallimento, l’inconcludenza, lo sguardo cieco dell’occidente incapace di relazionarsi con il “diverso”. È ciò che accade al personaggio di Flaiano, la cui vicenda diviene parodia del colonialismo italiano e che a partire «dalla banalità indica lo spessore di una tragedia che, come per le ragioni abiette più grandi, produce le stesse vittime, massacri inutili, atrocità innominabili» (pag. 65).
L’intento di revisione e trasgressione è ben sviluppato nel saggio del curatore del volume, che indaga la relazione Italia–Libia in alcune opere del Novecento, che, secondo la sua tesi, sono rappresentative dell’omissione del rapporto storico tra i due paesi. A partire da Pascoli, passando per Marinetti, Dei Gaslini fino a Tobino, Derobertis svela molti dei luoghi comuni presenti nei loro testi sulle popolazioni colonizzate, nonché quello sguardo maschile, sulle donne e sul territorio, «oppressivo e claustrofobico» (pag. 83). Il controcanto a tali narrazioni è dato dal testo, preso in esame da Derobertis nella parte finale del suo contributo, di Luciana Capretti, El Ghibli, che riporta alla luce «due storie rimosse dell’identità italiana: emigrazione e colonialismo» (pag. 85). Lo studioso attua una lettura del colonialismo italiano attraverso opere contemporanee, mostrando un rinnovato approccio critico attento alle connessioni e agli incroci interdisciplinari.
Sulla sottovalutazione del colonialismo italiano e sull’idea, scarsamente popolare, che l’identità italiana si sia formata anche attraverso «la sopraffazione e la violenza» (pag. 106) si sofferma il saggio di Daniele Comberiati, “Province minori” di un “impero minore”: narrazioni italo–ebraiche dalla Libia al Dodecaneso. In esso lo studioso presenta alcune opere di autori italo–ebraici, Arthur Journo, David Gerbi e Victor Magiar, nati in Libia e costretti a abbandonarla con l’ascesa al potere di Gheddafi. La cacciata è un momento importante per la storia italiana la cui opinione pubblica è costretta a prendere consapevolezza delle atrocità coloniali lì commesse, nell’ottica di quel ritorno del rimosso di cui si è detto. Per quanto concerne il colonialismo italiano in Europa, Comberiati cita l’opera di Giorgio Mieli, Mi alma, autore ebraico proveniente dall’arcipelago greco che sfata un altro mito, quello della blanda persecuzione italiana degli ebrei.
Tutti incentrati sulle ripercussioni di genere e razza appaiono gli ultimi due saggi del volume: Monica Venturini, in “Toccare il futuro. Scritture postcoloniali femminili”, si avvale delle chiavi di lettura degli studi postcoloniali (le teorie di Homi Bhabha in particolare) per presentare alcuni testi esemplari legati al colonialismo italiano scritti per mano di donna: L’abbandono di Erminia Dell’Oro, Lontano da Mogadiscio di Shirin Ramzanali Fazel e Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi. Tali autrici esprimono una «rinnovata idea di scrittura come strumento etico e di romanzo come genere della “responsabilità storica”» (pag. 122). Offrono inoltre una visione articolata di identità, che trova il proprio senso non in un paradigma nazionale ma dislocato e multiculturale. Il ritorno del rimosso – che tali voci di donne contribuiscono a far affiorare – emerge anche in tale analisi come esigenza ineludibile per produrre progresso e conoscenza. E sulla presa di posizione e voce teorizza Geneviève Makaping, la cui opera, Traiettorie di sguardi, è indagata da Sonia Sabelli in Quando la subalterna parla. La scrittura diviene opportunità per l’autrice di parlare in prima persona, di prendere consapevolezza della condizione di marginalizzazione in cui vive e che elegge come spazio di espressione. Genere e razza sono due lenti attraverso cui Sabelli interpreta l’esperienza di scrittura dell’autrice originaria del Camerun, la cui esperienza in Italia si è caratterizzata per il confronto continuo con sessismo e razzismo: un ulteriore esempio che testimonia come gli italiani, in passato come oggi, non siano immuni da atteggiamenti xenofobi e spesso non se ne rendano nemmeno conto.
Il volume si chiude, significativamente, su una esperienza femminile dell’oggi, che però porta sulle proprie spalle il retaggio di un rapporto squilibrato tra l’occidente e il suo “altro” africano.

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