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Quale razza? genere, classe e colore in Timira e L’ottava vibrazione

Questo è il mio intervento alla “tavola rotonda” di cui parlavo nel post precedente: Gaia Giuliani (a cura di) La sottile linea bianca. Intersezioni di razza, genere e classe nell’Italia postcoloniale, in «Studi culturali», n. 2, agosto 2013, pp. 253-344). Un’anticipazione è apparsa su Giap, il blog dei Wu Ming, il 12 agosto scorso, a un anno dall’inaugurazione del mausoleo di Affile dedicato al criminale fascista Rodolfo Graziani, per non dimenticare.

Quale razza?
genere, classe e colore in
Timira e L’ottava vibrazione

di Sonia Sabelli

In questi ultimi giorni la stampa italiana ha definito la neoministra italocongolese Cécile Kyenge come la prima donna «di colore» [come se dire «nera» fosse un insulto e come se il bianco fosse un non-colore] ad assumere l’incarico di «ministro» [al maschile, come se un ministro non potesse essere una donna e come se la gente nera non avesse un sesso]. Non è dunque un caso che l’interessata abbia dovuto ribadire di essere una donna nera e di esserne fiera (vedi infra Petrovich Njegosh). Evidentemente, come ci insegnano le femministe e le lesbiche afroamericane, sessismo e razzismo agiscono sempre simultaneamente (Combahee River Collective 1977): sono «sistemi interconnessi di dominio che si rafforzano e si sostengono a vicenda» (hooks 1991, 39). A partire da questa consapevolezza, riprendo qui alcuni degli stimoli offerti dall’intervento di apertura di Gaia Giuliani sull’identificazione tra bianchezza e italianità e sulle intersezioni di genere, classe e colore, per verificare come tali temi siano rappresentati nella letteratura italiana contemporanea. Il mio intervento si concentra in particolare su due romanzi, L’ottava vibrazione di Carlo Lucarelli (2008) e Timira. Romanzo meticcio di Wu Ming 2 e Antar Mohamed (2012), che testimoniano il recente interesse mostrato da alcuni scrittori molto noti per la storia coloniale italiana.

Nella postfazione, Lucarelli presenta il suo bestseller come «un romanzo storico ambientato in Eritrea attorno alla battaglia di Adua» (1896). Passata alla storia come una «disfatta» – secondo la prospettiva colonialista incarnata dal narratore del romanzo è «la più grande sconfitta mai subita da un esercito coloniale europeo» (Lucarelli 2008, 441) – Adua si configura piuttosto, agli occhi del popolo etiope e dei movimenti panafricani, come quella «vittoria africana» (Gerima 1999) che ha messo in questione «la “supremazia bianca” dei discorsi europei e il progetto di intensificazione dello sfruttamento dell’Africa» (Derobertis 2010, 16). Il romanzo di Lucarelli, però, col suo sguardo esotista, saturo di stereotipi razzializzanti che riecheggiano la letteratura e la fotografia di epoca coloniale, non opera quel rovesciamento dei punti di vista che ci si aspetterebbe da un romanzo contemporaneo, confermando quanto la prospettiva postcoloniale non sia una questione cronologica ma di consapevolezza critica. Timira, invece, fin dal sottotitolo, si propone esplicitamente di attraversare la linea del colore, mescolando memoria, documenti d’archivio e invenzione narrativa: nella quarta di copertina si spiega che il romanzo è stato scritto a sei mani da «un cantastorie italiano dal nome cinese [Wu Ming 2], insieme a un’attrice italosomala ottantacinquenne [Isabella Marincola, sorella del partigiano nero Giorgio] e a un esule somalo con quattro lauree e due cittadinanze [suo figlio Antar Mohamed]» – anche se poi sarà pubblicato dopo la morte di Isabella, che perciò compare solo come protagonista e non come figura autoriale. Un particolare non secondario, se affiancato alla consapevolezza (che emerge negli «interludi») della relazione gerarchica che si instaura necessariamente tra chi detiene il potere di raccontare la propria versione delle storia e chi invece viene raccontata/o, oltre che dei rischi connessi all’interiorizzazione di una mentalità coloniale, sempre in agguato nelle nostre teste di occidentali (Wu Ming 2, Mohamed 2012, 345).

Qui analizzo in particolare le rappresentazioni della bianchezza e della nerezza che compaiono nei due testi, a partire dalle loro intersezioni con la costruzione del genere e dell’italianità. La costruzione dell’italianità segue percorsi diametralmente opposti nei due testi, per ovvi motivi di ambientazione storica: se Timira costituisce un tentativo di decostruire l’identificazione tra colore e nazione nell’Italia dei respingimenti e del pacchetto sicurezza, L’ottava vibrazione si inserisce senza soluzione di continuità in quella tradizione letteraria che narra l’Africa come «il lato oscuro», il «cuore di tenebra» (vedi i versi in epigrafe che spiegano il titolo del romanzo) e che legge il colonialismo come una metafora avventurosa e come uno dei miti fondativi della nazione e della maschilità bianca (Stefani 2007; Derobertis 2009), oppure, per usare le parole dell’autore, come «il nostro Far West» (Triulzi 2012, 107; infra Comberiati). Certo, si deve riconoscere a Lucarelli la capacità di evidenziare le continuità, spesso dimenticate, nella storia del colonialismo italiano, dall’età liberale, in cui si svolge il romanzo, all’impero fascista, che si distinguerà per l’aspetto specifico delle politiche sessuali improntate sulle leggi razziali, con la criminalizzazione delle unioni miste e il divieto di riconoscere i figli nati da esse (Poidimani 2009). Inoltre, è significativa la presenza tra i soldati coloniali di un socialista che ammira Andrea Costa (il deputato che nel 1887, durante il dibattito parlamentare sul rifinanziamento della missione coloniale seguito al massacro di Dogali, aveva affermato «né un uomo né un soldo») e dell’anarchico internazionalista Pasolini, che non perde occasione per mettere in evidenza «le contraddizioni del sistema» e si rifiuta di combattere declamando ad alta voce i versi di Ulisse Barbieri: «ma non capite, o branco di cretini, che i patrioti sono gli abissini?» (Lucarelli 2008, 36 e 257; vedi Berrocal 2010). Ma vi sono altri elementi che ripropongono la funzione storica del colonialismo in quanto metafora della costruzione della maschilità italiana come bianca e coloniale. Ad esempio, la descrizione del soldato «insabbiato» Sciortino come un contadino meridionale poco intelligente, che non ha pensieri ma solo sensazioni, e agli occhi dei commilitoni «sembra un abissino» (389), riproduce gli stereotipi razzisti sul Mezzogiorno d’Italia come sinonimo di arretratezza e sottosviluppo (vedi infra Capussotti). Mentre l’insistenza quasi ossessiva sulle varietà regionali dell’italiano che caratterizzano la parlata dei soldati è un segno della mancanza di omogeneità linguistica e culturale di una nazione che ha appena avviato il suo processo di unificazione linguistica e culturale; in questo contesto, si inserisce la percezione della Colonia Eritrea come il luogo in cui i soldati e i funzionari coloniali che popolano il romanzo di Lucarelli possono realizzare il sogno di coprirsi di gloria e soddisfare il desiderio di provare emozioni forti, diventando degli eroi. Se è vero che queste rappresentazioni corrispondono alla necessità di costruire una memoria del colonialismo italiano, è anche vero che quella di Lucarelli – come ha affermato Paolo Jedlowski – è «una memoria che non prende posizione» oppure – come ha precisato Giulietta Stefani – «questa posizione è a tratti ambivalente», proprio per la mancanza di una problematizzazione, evidente soprattutto nelle rappresentazioni stereotipate dei personaggi, sia colonizzati che colonizzatori, e delle relazioni tra i due gruppi (Jedlowski 2008; Stefani 2010, 51). Ritengo invece che siano proprio le relazioni tra i due gruppi, e in particolare le rappresentazioni del colore, del genere e della sessualità, i nodi cruciali su cui si gioca la possibilità di rilevare in questi testi una prospettiva postcoloniale, che contribuisca a decostruire gli stereotipi razzisti, sessisti e disumanizzanti, oppure a rinforzarli.

In un documentario che significativamente si intitola Quale razza? (Amadei 2008) Isabella Marincola incalza così il suo intervistatore: «Io sono un’italiana, con la pelle scura. Ti va bene a te? O sei anche tu un razzista? […] mi ricordo che qualcuno mi ha detto: “sei la vergogna della razza!” Allora mi sono chiesta: “quale razza?”». Gli stessi interrogativi ritornano in Timira, quando la protagonista reagisce agli insulti razzisti decidendo di dedicarsi «con grande entusiasmo» a questa particolare abilità, essere «la vergona della razza», che ha il potere di disorientare i suoi interlocutori (Wu Ming 2, Mohamed 2012, 279-80). Figlia di una donna somala e di un soldato coloniale che decide di allevare lei e il fratello in Italia, perché convinto che «il figlio meticcio, quando educato da italiano, possa aspirare alle stesse conquiste di un italiano intero» (ivi, 50), da bambina Isabella è convinta di avere la pelle nera per via del sole di Mogadiscio (ivi, 103). Da adulta, invece, reagisce al razzismo identitario che la considera automaticamente una straniera, una «profuga in patria» (ivi, 181), perché non coincide con la norma somatica bianca, rivendicando la possibilità di identificare nerezza, meticciato e italianità. Isabella si autodefinisce infatti come «un’italiana dalla pelle scura» (ivi, 395), ma sa bene che per la mentalità comune questo è ancora un ossimoro: «se sei italiano e hai la pelle scura, sei una contraddizione vivente. Devi dimostrare che sei davvero italiano, devi essere più italiano degli altri» (ivi, 449). Paradossalmente, lo stesso trattamento le viene riservato sia dall’amica albanese Merushe – di fronte alla quale deve ribadire di essere italiana nonostante la propria nerezza (ivi, 120) – sia in Somalia, dove la chiamano «gaal», infedele, e dove suo figlio si rifiuta di frequentare la scuola italiana perché vorrebbe dire che si vergogna di essere somalo (ivi, 425). L’unica soluzione che le permetta di sfuggire alla logica nazionalista, identitaria e razzializzante in cui si trova intrappolata suo malgrado, è quella di riaffermare una duplice appartenenza: «la mia patria era l’Italia, mentre la Somalia era la mia matria» (ivi, 282), conclude Isabella citando implicitamente Igiaba Scego: «Eravamo dei dismatriati, qualcuno – forse per sempre – aveva tagliato il cordone ombelicale che ci legava alla nostra matria, alla Somalia» (Scego 2005, 11).

In entrambi i romanzi, l’affermazione della bianchezza come sinonimo di italianità è complementare alla svalutazione della nerezza, considerata come la quintessenza dell’alterità. Nell’Ottava vibrazione, in particolare, l’avanzare dell’esercito del Negus ad Adua, anticipato dal rombo assordante dei tamburi e da un «puzzo aspro e feroce» che è l’«odore di altra gente, di altri soldati», è descritto come «un’onda nera», una «marea che cresce, un flusso inarrestabile, che arriva di corsa, urlando» (Lucarelli 2008, 425-426, corsivi miei), quasi a riprodurre le immagini minacciose e inquietanti di «orde» ed «esodi biblici» spesso associate alle migrazioni contemporanee (vedi infra Brioni). In perfetta continuità con l’immaginario coloniale, i soggetti colonizzati sono rappresentati sempre come esseri inferiori e animaleschi: c’è un ascaro con la «faccia da cavallo» (ivi, 16, 19), il piccolo Berè squittisce «come un topo» (ivi, 69), un altro bambino è «nero e irsuto proprio come una scimmietta» (ivi, 242) e Sabà si aggrappa al suo soldato «come una scimmia» (ivi, 138), fino all’estremo di Aicha che, dall’inizio alla fine del romanzo, è apostrofata soltanto come «la cagna nera» (ivi, 11, 12, 14, 80, 194, 446). Secondo il narratore «Aicha è un animale, è una iena, un gatto nero, che filtra il mondo attorno soltanto con i sensi» (ivi, 233) e come un animale non possiede nemmeno la capacità di parlare: «Aicha non ha parola, non ha pensieri, solo sensazioni, come una iena o un gatto nero» (ivi, 235). Più in generale, le rappresentazioni delle donne nere oscillano tra le due figure femminili tipiche dell’immaginario coloniale – Aicha, la prostituta «nuda, sporca e nera» (ivi, 13), dalla «sensualità selvaggia e rovente» (ivi, 87), che esiste solo per soddisfare i desideri sessuali dei maschi italiani, e Sabà, la madama dolce e servizievole, che è un gradino più in alto nella gerarchia razzializzante perché «non è una selvaggia, è una donna, è la madama di un ufficiale italiano» (ivi, 71), e infatti parla l’italiano e si prende cura del soldato Branciamore come se fosse sua moglie, anche se «lui ce l’ha già una moglie, in Italia» (ivi, 137). Comunque, entrambe le figure sono sempre posizionate in una relazione di inferiorità gerarchica con l’apparente candore, peraltro solo esteriore, delle donne bianche e italiane, come nel caso di Cristina (ivi, 86-87 e 96-97), la moglie del cavalier Leo Fumagalli, «bello e ricco e troppo preso dal sogno di fare un giardino della Colonia italiana d’Eritrea (ivi, 24). Le donne nere rimangono dunque imprigionate nei soliti stereotipi razzisti, sessisti e disumanizzanti: «le negrette […] con le poppe di fuori […] la Venere nera, la Circe d’Africa […] vado in Colonia e me le trombo tutte» (ivi, 35); mentre gli uomini neri sono rappresentati come «i negroni […] che hanno fatto a pezzi gli inglesi […] così cattivi, ma così cattivi, che si limano i denti a punta per mordere […] vi tagliano l’uccello […] ve lo schiaffano nel culo […] un’orda di negri disumani» (ivi, 35-36), e dunque come una minaccia costante per la virilità bianca e italiana, che deve proteggersi dal rischio di una castrazione non solo simbolica (ivi, 118; vedi anche McClintock 1995 e Stefani 2007). Le uniche figure maschili che trasgrediscono la rappresentazione esclusivamente eteronormativa della sessualità – la coppia omosessuale composta dai due zaptiè (carabinieri indigeni) Ahmed e Gabrè, che in realtà sono spie del Negus, e il maggiore Flaminio, l’ufficiale «effeminato» che si eccita alla vista del sangue giovane – rimangono piuttosto marginali e appaiono come delle mere eccezioni che servono a riconfermare la regola e la superiorità di una maschilità bianca, italiana ed eterosessuale.

Decisamente più complesse appaiono le rappresentazioni del genere, della classe e del colore in Timira, non solo in virtù del più dilatato arco temporale in cui si sviluppa il romanzo ma soprattutto grazie alla moltiplicazione delle voci e dei punti di vista, che offrono a chi legge la possibilità di una seria presa di distanza critica e non un mero rispecchiamento della prospettiva colonialista. La lettera con cui il maresciallo Marincola annuncia al fratello la decisione di far allevare in Italia i figli «meticci» ci restituisce immediatamente l’assurdità di un razzismo paternalista che serve a confermare il potere civilizzatore del colonizzatore bianco. Inoltre, la reazione del suo superiore ribadisce subito il nesso già rilevato sopra tra affermazione del potere coloniale e conferma della maschilità bianca ed eterosessuale: «per quanto lo riguardava una sola cosa era fondamentale: che lo sfogo della nostra maschile esuberanza non facesse venire meno la virilità, la spina dorsale e il prestigio, senza il quale centinaia di migliaia di individui non resterebbero sottomessi a poche migliaia» (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 51). Nel racconto delle suore missionarie che la accompagnano in Italia, Isabella è descritta, secondo il cliché colonialista, come una «bimba selvaggia» dal «musetto d’ambra» (ivi, 64-67), mentre agli occhi di Flora Virdis, la moglie del padre, appare come «l’immagine del peccato di suo marito (ivi, 68) ed è «stupida come una scimmia» (ivi, 91). Per il figlio Antar, che si prende cura di lei quando ritorna in Italia da «profuga nel suo paese», questa donna indipendente e appassionata rappresenta una presenza scomoda e ingombrante, che arriva a mettere in crisi anche il suo rapporto di coppia; mentre per lo scrittore Wu Ming 2 è una fonte inesauribile di storie da raccontare. La stessa protagonista, a tratti, interiorizza lo sguardo razzializzante che fa della nerezza un disvalore, simbolo di bruttezza e animalità (ivi, 94), tanto da convincersi di essere sterile, secondo la peggiore propaganda fascista «che descriveva muli e mulatti come una razza bastarda di ibridi infecondi» (ivi, 307). Poi però ci regala delle pagine esilaranti, quando riesce a ironizzare sugli atteggiamenti sessisti, razzisti ed esotizzanti degli italiani: sul datore di lavoro che identifica la sua pelle nera con «promesse di sesso facile, selvaggio e caldo come una notte equatoriale» (ivi, 128) e sull’ossessione degli italiani per «il culo delle donne somale» (ivi, 295); su coloro che negli anni Trenta la vezzeggiano «come una bertuccia ammaestrata» perché vedono in lei «l’icona dell’avventura coloniale» o sul commerciante che la sceglie per reclamizzare degli occhiali con la montatura d’avorio «perché il bianco risalta bene sulla pelle nera o perché l’avorio, gli elefanti, l’Africa, la venere nera…» (ivi, 169); su coloro che ridono della sua eleganza perché ai loro occhi evoca «l’immagine di una scimmia con gli occhiali» (ivi, 170) o su chi si stupisce della sua cultura «perché una morettina così ben istruita, capace di tradurre dal greco e dal latino, non poteva discendere da una stirpe di cammellieri e bingobongo» (ivi, 205); ma anche su chi dà per scontato che lei e il fratello Giorgio debbano avere l’antifascismo nel sangue, perché «figli della colonia», mentre durante il ventennio Isabella è impegnata su un altro fronte, a combattere la sua «resistenza da camera contro un duce in gonnella» (ivi, 187-188). La matrigna è infatti colei che vorrebbe confinarla nei ruoli di «mignotta» o «servetta» (ivi, 206) che sono stati storicamente attribuiti alle donne nere e immigrate, quegli stessi ruoli che le verranno offerti quando intraprenderà la carriera cinematografica, interpretando proprio una schiava. Quando si trasferisce in Somalia, Isabella si rende conto che «l’alternativa secca tra madre e puttana non conosce confini» (ivi, 355) mentre, quando ritorna in Italia, si trova costretta a lavorare come assistente domestica per un’anziana signora che, paradossalmente, si chiama Itala (ivi, 211). A partire dal rifiuto di omologarsi alla norma che ammette le donne nere e immigrate nel mercato del lavoro solo come «colf» e «badanti» (unica alternativa: lo sfruttamento nel mercato della prostituzione), tutta la vita di Isabella Marincola potrebbe essere letta allora come una strategia di resistenza contro sessismo e razzismo, come un rifiuto a lasciarsi imprigionare nei ruoli imposti dalle linee di genere, classe e colore.

Certo, non si può fare a meno di rilevare che Isabella Marincola era una donna anziana mentre i due autori di Timira – che si propongono di disseppellire lo scrigno di storie intrecciate tra Europa e Africa di cui lei è portatrice – sono giovani e maschi (vedi Randall 2012). Inoltre, la riflessione conclusiva che propone la condizione di profuga come una metafora del presente italiano, in cui saremmo tutte e tutti profughi in quanto cittadini di uno stato che non c’è (Wu Ming 2 e Mohamed 2012, 458-465), risulta piuttosto forzata, proprio perché rischia di cancellare le differenze e le gerarchie di potere inscritte sulle linee di genere, classe e colore. Ma, nel complesso, il risultato di quest’esperimento di scrittura collettiva (ivi, 344-346) è un’efficace contronarrazione, che funziona come un potente antidoto contro il persistere della mentalità razzista e sessista, contribuendo attivamente all’affermazione di una consapevolezza postcoloniale nella letteratura italiana contemporanea. Per questo credo che Timira debba essere letto anche alla luce dell’emergere, negli ultimi venti anni, delle scritture migranti e postcoloniali nella letteratura italiana: da Nassera Chora e Geneviève Makaping, fino a Gabriella Ghermandi e Cristina Ali Farah, solo per menzionarne alcune, le opere di autori e autrici afroitaliane e originarie dalle ex colonie sono infatti i luoghi culturali chiave in cui oggi si costruisce una memoria critica del passato coloniale italiano (vedi Siebert 2012) e si decostruisce l’idea che la bianchezza sia «il colore legittimo» nell’Italia contemporanea (vedi Portelli 2001; Romeo 2006, 2011, 2012; Sabelli 2010). La presa di parola dei soggetti che sono stati razzializzati è infatti una strategia di resistenza contro il persistere di quegli stereotipi razzisti e sessisti che storicamente sono serviti a giustificare il colonialismo e che oggi invece sono funzionali a gestire i flussi migratori in tempo di crisi: influenzano la percezione della violenza maschile contro le donne e i discorsi pubblici sull’immigrazione (vedi Ribeiro Corossacz 2013), stratificano il mercato italiano del lavoro secondo le linee del genere, della classe e del colore (vedi Curcio e Mellino 2012, infra Grappi e Sacchetto) e riproducono disuguaglianze sociali che limitano l’accesso ai diritti di cittadinanza (vedi infra Venturini). Sono queste le soggettività che ci ricordano quanto sia necessario e urgente «parlare di razza» nell’Italia contemporanea, interrogarsi sui diversi significati che questa costruzione culturale assume e sugli effetti che produce, illuminando anche i nessi con la costruzione del genere e dell’identità nazionale (Petrovich Njegosh e Scacchi 2012).

 

Bibliografia

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Filmografia

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