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Chi canta l’inno nazionale? Tricolore. Bandiere pericolose

«Tricolore e inno nazionale per la prima manifestazione nazionale di Rom e Sinti», così recitava la gran parte dei titoli dei media che hanno reso conto della manifestazione nazionale antirazzista organizzata dalle associazioni dei Sinti italiani, che si è svolta sabato 16 maggio a Bologna. Perché tanto interesse per la presenza del tricolore e dell’inno di Mameli? Perché è significativo che un gruppo sociale che da sempre è stato ecluso dai diritti di citadinanza scelga una simile colonna sonora? E quanto è problematica questa scelta? In altre parole, chi ha il diritto di sventolare il tricolore o di cantare l’inno nazionale? Seppure in altro contesto (a partire dall’uso dei simboli della nazione da parte di figlie e figli di migranti), qualche tempo fa avevo provato a ragionare su interrogativi simili, con questo testo che ora ripropongo. Ringrazio le tre curatrici del volume e in particolare Vincenza Perilli, per i preziosi commenti e suggerimenti ricevuti durante la sua stesura.

Tricolore. Bandiere pericolose

di Sonia Sabelli

[in Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat, Vincenza Perilli (a cura di), Femministe a parole. Grovigli da districare, Ediesse, Roma 2012, pp. 279-286]

Il tricolore, in quanto emblema dell’identità nazionale italiana, è stato storicamente associato a una cultura nazionalista e patriottica, conservatrice, belligerante e tradizionalmente di destra. Nell’Italia di oggi, invece, nonostante la crisi dello stato-nazione, sembra che esporre con orgoglio la bandiera tricolore sia divenuto un comportamento appropriato anche negli ambienti progressisti e di sinistra, generalmente associati a una prospettiva europeista, pacifista, internazionalista. Ma, spesso, chi mette in atto una tale affermazione dell’italianità dimentica che l’idea di nazione presuppone l’esistenza di un ipotetico noi – fondato su una comunanza di tratti culturali presentati come naturali[1] – da contrapporre a coloro che sono considerati altri, perché diversi, stranieri e, potenzialmente, anche nemici. Del resto la bandiera è sempre stata uno dei simboli più potenti ed efficaci della dominazione militare, coloniale e imperialista, come nel caso dell’immagine seguente (fig. 1). E questa sarebbe già una ragione sufficiente per essere sospettose di fronte ai recenti tentativi di riattivare il patriottismo e il nazionalismo, sia da destra che da sinistra.

somalia_alzabandieraSecondo lo storico Alberto Mario Banti, che ha analizzato la costruzione del discorso nazional-patriottico in Italia dal Risorgimento al fascismo, dovremmo essere consapevoli che l’uso di termini come patria e nazione porta con sé una serie di valori che producono potenti effetti performativi, poiché «inducono a pensare la nazione come parentela, come discendenza di sangue, come memoria storica esclusiva e selettiva, come valorizzazione di narrazioni bellicistiche e maschiliste» (Banti, 2011, p. 208). Chi oggi si preoccupa di riaffermare l’identità nazionale italiana finisce dunque per dimenticare che essa si fonda su una rigida linea del colore (cfr. colore), sulla distinzione binaria tra due diversi ruoli sessuali (maschio e femmina eterosessuali) e sull’attribuzione della cittadinanza (cfr. cittadinanza) in base al diritto di sangue (che informa la legislazione sulla cittadinanza fin dal Regno d’Italia). Il ritardo italiano nella produzione di una riflessione critica sul privilegio della bianchezza (cfr. bianchezza), sul nesso tra genere, eteronormatività e nazione, così come sul criterio familista/parentale, continua a riprodurre gerarchie di potere e meccanismi di inclusione ed esclusione: è in base a tali criteri selettivi, infatti, che le soggettività che fanno parte delle minoranze (razziali, sessuali, linguistiche, religiose, ecc.) possono avere accesso all’appartenenza nazionale e, dunque, alla piena cittadinanza, oppure possono essere considerate «illegali».

Nell’ultimo decennio, e in particolare negli anni della presidenza Ciampi (1999-2006), abbiamo assistito al tentativo di rilanciare nel dibattito pubblico italiano il senso di appartenenza a una comunità nazionale, facendo ampio ricorso a termini ormai in disuso, come patria e nazione (Banti, 2011, pp. 205-206). Abbandonato dopo la seconda guerra mondiale a causa del nesso tra ideologia nazional-patriottica e nazi-fascismo, il dibattito sull’identità nazionale è riemerso prepotentemente in risposta alla minaccia secessionista rappresentata dalla Lega Nord (ivi). Così – paradossalmente – esporre il tricolore e cantare l’inno nazionale sono oggi comportamenti diffusi non solo tra i politici e l’elettorato democratico di centro-sinistra ma, in alcuni casi, anche tra i figli di immigrati (cfr. generazioni migranti) che reclamano l’accesso ai diritti di cittadinanza (fig. 2).

g2_tricoloreIn un recente dialogo Judith Butler e Gayatri C. Spivak analizzano l’atto, da parte degli immigrati illegali provenienti da Messico e centro-America, di cantare l’inno nazionale degli Stati Uniti in spagnolo (Butler e Spivak, [2007] 2009). Per Butler quest’atto rappresenta già una contraddizione performativa, perché introduce il problema della pluralità della nazione: del «noi» (chi può essere incluso in questo noi?) e del «nostro» (a chi appartiene questo inno nazionale?). Ma quest’atto è ancora un’espressione di nazionalismo, verso cui mostrare sospetto, oppure coincide con l’esercizio di un diritto postnazionale? Butler pone la domanda senza dare una risposta definitiva, suggerendo però che, se consideriamo il cantare come un atto collettivo e come un discorso in traduzione, allora esso annuncia lo scarto tra l’esercizio di una libertà e di un’eguaglianza che non sono ancora compiute e la loro realizzazione (ibid., pp. 60-65). Secondo Spivak, invece, quest’atto non contribuisce automaticamente a disfare il nazionalismo, poiché rivendica l’utopia dell’appartenenza allo stato capitalista, senza opporsi al «capitalismo senza regole» (ibid., p. 69).

Provando a tradurre questo dialogo nel contesto italiano, ci si potrebbe interrogare sull’uso del tricolore da parte dei giovani appartenenti alla rete G2 – Seconde Generazioni (fig. 2) o sulla loro partecipazione alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia[2]. In questa occasione, i Termini Underground, una crew romana composta da giovani figli di immigrati, hanno cantato una versione rap dell’inno nazionale italiano, intitolata Fratelli IN Italia. Ma esporre il tricolore o cantare l’inno di Mameli per i figli di immigrati è già un atto performativo? o è solo una strategia di affermazione identitaria in chiave nazionalista? E, soprattutto, quali strategie sono oggi possibili per disfare la connessione tra sangue e cittadinanza? tra bianchezza e italianità? tra genere e nazione?

Appropriarsi dei simboli della nazione (il tricolore e l’inno nazionale) e affermare la propria italianità, in uno stato che li ha disciplinati come «stranieri nella propria nazione»[3], è senza dubbio un gesto che fa emergere una contraddizione performativa, contribuendo a espandere i confini della nazione. Ma, anche se riesce a unire tutti sotto la stessa bandiera, lo stato può pure dividere, perché detiene il potere di sfruttare, rinchiudere ed espellere. Dunque – come auspicato da Spivak (ivi) – l’atto di esplicitare la contraddizione dovrebbe andare di pari passo con la necessità di esaminare criticamente l’appartenenza allo stato capitalista. Si tratta di decostruire la stessa idea di nazione, ad esempio «spostando la prospettiva del dibattito pubblico sulla costruzione dei migranti e l’integrazione: dal paradigma dell’accettazione/rifiuto dell’Altro al paradigma dell’‘Altro in Noi’ e del ‘Sé nell’Altro’» (Berrocal, 2010, p.69). Una prospettiva che consentirebbe quindi di «confondere il divario tra il Sé e l’Altro» e di «ri-costruire il ‘volto pubblico’ della Nazione in una direzione anti-nazionalista» (ivi).

La nozione di identità italiana è una nozione tuttora controversa, molteplice e in continuo mutamento, costruita sulla base della negazione del contrasto insoluto tra la tendenza a una presunta omogeneità culturale e la presenza di forti spinte centrifughe: frammentazione e regionalismi; un processo di unificazione basato sulla colonizzazione del meridione da parte del Nord industrializzato; il tentativo di reincarnare la retorica del potere imperiale attraverso un secolo di avventure coloniali; fino all’attuale adesione a un modello di integrazione europea basato ancora una volta su un’ideologia dell’esclusione, implicita ad esempio nell’uso del termine «extracomunitario».

Ma, come sostiene Butler, «per produrre la nazione che serve da base allo stato-nazione, bisogna purificare la nazione dalla sua eterogeneità» (Butler e Spivak, [2007] 2009, p. 46). Dunque il discorso nazionalista tende a occultare le differenze interne, in nome di una presunta omogeneità culturale, per rafforzare invece le differenze tra noi e loro: quelle che permettono di fissare i confini geopolitici e simbolici che «idealmente connotano, isolano e proteggono i membri della comunità» (Banti, 2005, p. 200). Nel corso della storia, ad esempio, tedeschi e austriaci sono stati rappresentati come invasori, violenti, selvaggi, stupratori, come una minaccia per l’integrità della comunità e l’onore della nazione. Tutti attributi che in passato sono stati usati anche per designare i popoli colonizzati e che oggi si riattivano sugli immigrati presenti sul territorio italiano. E allora, invece di aspirare a una pretesa omogeneità culturale ancora tutta da verificare, sarebbe forse più produttivo analizzare la costruzione dell’identità nazionale italiana tenendo conto delle differenze che attraversano la sua storia e che si articolano intorno ai confini di genere, classe, sangue e colore.

In particolare, la costruzione della razza (cfr. razza) nella storia italiana dovrebbe essere analizzata a partire dall’incontro/scontro con gli «altri» e tenendo conto delle continuità tra le diverse fasi dei flussi migratori – dall’emigrazione di massa nel periodo postunitario (Guglielmo e Salerno, 2006), passando per le migrazioni interne da sud a nord (Teti, 1993), fino all’immigrazione contemporanea (Romeo, 2006) – senza dimenticare il passato coloniale e, in particolare, le politiche razziali e sessuali attuate durante l’impero (Poidimani, 2009). Un elemento di continuità è sicuramente l’identificazione tra la bianchezza, considerata come assenza di colore, e l’italianità, che rende automaticamente la nerezza (cfr. nero) un sinonimo di esclusione, come negli insulti razzisti rivolti a Mario Balotelli dai tifosi di calcio – «non esistono negri italiani» – in cui risuona il vecchio slogan degli skinheads inglesi (Gilroy, 1991).

In realtà le storie emblematiche di Giorgio Marincola, il partigiano italo-somalo che combatteva «senza bandiera»[4], e di Leone Jacovacci, il pugile «nero di Roma», dimostrano che le cose non stanno proprio così (Costa e Teodonio, 2008; Valeri, 2008). Un fenomeno ancora tutto da indagare è proprio il nesso tra lo sport e la retorica dell’identità nazionale: il caso di Balotelli è divenuto infatti un «esempio di integrazione» (cfr. integrazione) per chi si propone di «ridefinire le geometrie dell’inclusione e dell’esclusione dalla cittadinanza sulla base dell’adesione ai presunti ideali di un progetto nazionalistico, in una nuova chiave patriottica di rivendicazione dell’‘identità’ italiana» (D’Ottavio, 2010, p. 176). Decisamente più problematica è la realtà quotidiana degli italiani e delle italiane nere, con o senza cittadinanza formale, che spesso subiscono forme di discriminazione in base al colore della pelle, ma che allo stesso tempo contribuiscono attivamente a decostruire la bianchezza e a disfare l’idea dell’identità nazionale italiana come monoculturale e monocolore (Khouma, 2010).

Un ruolo simbolico determinante nei discorsi nazionalisti e razzisti è affidato, in particolare, alle donne, rappresentate come emblemi dello stato nazionale: «come madri e mogli chiamate letteralmente a riprodurre la nazione» (Loomba, 1998, pp. 210-11; cfr. madre patrie). Il corpo delle donne incarna infatti l’onore della nazione ed è spesso al centro dei processi di inclusione ed esclusione prodotti dal nazionalismo e dal razzismo (Lutz et al., 1995, pp. 9-10). La questione della protezione/violazione del corpo delle donne è un concetto chiave nel discorso nazional-patriottico, proprio a causa della connessione tra razza, nazione e riproduzione. Stupisce dunque che nelle recenti celebrazioni del centocinquantenario dell’unità d’Italia si sia fatto largo uso di topoi che ripropongono il corpo delle donne come madri della nazione. Ad esempio, per la manifestazione dell’8 marzo 2011, il movimento SeNonOraQuando ha adottato lo slogan «rimettiamo al mondo l’Italia», senza una riflessione critica sulle relazioni di potere implicite nella possibilità di riprodurre, letteralmente o metaforicamente, la nazione. Un altro esempio è il manifesto esposto il 17 marzo a Roma davanti alla sede dell’Upter (fig. 3): come è stato giustamente rilevato, in questa immagine la donna incinta vestita del tricolore incarna la nazione e rappresenta il presupposto biologico di una comunità di fratelli con caratteristiche razziali definite e omogenee, che «danno corpo a gerarchie, poteri e competenze» (Gissi, 2010, p. 227).

upter_150esimo_2Le donne sperimentano infatti in maniera specifica il processo di identificazione con la nazione o con la comunità di appartenenza, a partire dall’intersezione tra genere, razza, classe (cfr. intersezionalità). Ad esempio, il corpo delle «nostre» donne (cioè italiane, bianche e cittadine) – a cui il fascismo affidava la riproduzione della razza e dell’impero – è considerato ancora oggi come un corpo che deve essere protetto dall’attacco dello «straniero stupratore», mentre il corpo delle donne «altre» (ieri colonizzate, oggi immigrate) è un corpo che può essere violato. Anzi, i casi di femminicidio verificatisi recentemente nell’ambito della comunità islamica italiana sono serviti a riconfermare la presunta superiorità della cultura nazionale, rafforzando «lo stereotipo della ‘povera donna musulmana’ sbandierato con successo dai propugnatori della presunta inferiorità della civiltà islamica, della incomparabilità tra ‘noi’ e ‘loro’ e dello ‘scontro di civiltà’» (Vanzan, 2010, p. 86). Se, da una parte, il discorso leghista e nazionalista si è concentrato sulla difesa delle radici cristiane dell’Europa per giustificare la propaganda anti-islamica, dall’altra, il presunto riconoscimento dei diritti delle donne e di lesbiche, gay e transessuali è stato usato sistematicamente come un tratto distintivo della superiorità della cultura occidentale e italiana (cfr. omonazionalismo). In entrambi i casi, il genere e la sessualità sono stati usati strategicamente per giustificare le politiche xenofobe e per rafforzare le retoriche identitarie[5].

Come si è visto, il tricolore è un segno «ambivalente» (Wu Ming 1, 2011) che, a seconda del posizionamento specifico del soggetto che lo sventola, può essere letto come un sinonimo di esclusione o di inclusione. Ma qual è il prezzo di questa inclusione? Ai figli dei migranti che esibiscono la bandiera per affermare i propri diritti di cittadinanza, si chiede di aderire incondizionatamente ai valori della nazione, ad esempio chiudendo gli occhi sul trattamento riservato a chi continua a essere considerato straniero. Così, «italiano nero» smette di essere un ossimoro solo se si riferisce a un atleta che contribuisce a rinvigorire il mito della squadra nazionale con i suoi traguardi. Mentre le donne che annunciano l’intenzione di riprendersi il Risorgimento e rimettere al mondo l’Italia possono reclamare il proprio ruolo nella società solo correndo il rischio di riprodurre il ruolo tradizionale della madre, come garante dell’ordine eteropatriarcale. Dunque, anche se recentemente il tricolore è stato riempito di nuovi significati – che lo rendono meno selettivo e più inclusivo rispetto ai confini di genere, classe e razza – è necessario esplicitare queste ambiguità ed essere consapevoli dei rischi che si corrono nel maneggiarlo, per evitare di riattivare i valori deteriori di cui è portatore e per decostruire le gerarchie di potere che contribuisce a riprodurre.

Note

[1] Come sottolinea Angela D’Ottavio, «Naturalizzazione è il termine giuridico che indica il processo attraverso cui lo Stato concede la cittadinanza a persone straniere» (D’Ottavio, 2010, p. 170). Ma già il discorso risorgimentale aveva proiettato la nazione dalla dimensione del politico a quella naturale, presentandola come una comunità di parentela e discendenza: come un fatto biologico che dipende da un legame di sangue (Banti, 2010, p. 15).

[2] Il 16 marzo 2011 l’associazione G2 ha partecipato a un evento dal titolo Promessi Sposi d’Italia, questa cittadinanza s’ha da fare!, finalizzato a «celebrare il sentimento di unità del nostro Paese e sensibilizzare le Istituzioni sulla necessità di rivedere le norme sulla concessione della cittadinanza», nel corso del quale ragazzi e ragazze di diversa origine e provenienza, nati o cresciuti in Italia, si sono alternati nella lettura di brevi frammenti del romanzo manzoniano, «che più d’ogni altro ha contribuito a formare la nostra identità nazionale», offrendo anche testimonianze personali su cosa significhi «crescere in Italia, sentirsi italiani per poi scoprire di non esserlo formalmente». Cfr. http://www.secondegenerazioni.it

[3] Cfr. Berrocal, 2010. Straniero nella mia nazione è anche il titolo di un brano di Amir Issaa, rapper italo-egiziano di Tor Pignattara, che la casa discografica Virgin ha commercializzato centrando la propria strategia di marketing sul suo essere figlio di immigrati. Per rispondere a questo tentativo di mercificare la sua etnicità, Amir ha poi inciso il brano Non sono un immigrato. Cfr. Amir, Uomo di prestigio, Virgin 2006; Paura di nessuno, Prestigio Records 2008.

[4] A proposito di un articolo pubblicato nel 2009 sul magazine FareFuturo (che si può leggere qui: http://www.razzapartigiana.it/?p=392), Wu Ming 2 commenta (sul blog http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1336): «Si vuole presentare Giorgio Marincola come modello di ‘negro ben integrato’, talmente integrato da combattere il fascismo ‘in quanto giovane italiano’. Al contrario, la sua resistenza non nasce dal senso, o dalla volontà, di appartenere a una Patria, ma da motivazioni ideali, senza bandiera, unite al suo essere discriminato per legge» (corsivo mio).

[5] Questi temi sono stati al centro del convegno transnazionale Fuori e dentro le democrazie sessuali, organizzato da Facciamo Breccia e svoltosi a Roma il 28 e 29 maggio 2011.

Bibliografia

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Lutz, Helma, Ann Phoenix, Nira Yuval-Davis (1995), Crossfires. Nationalism, Racism and Gender in Europe, Pluto, London.

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Wu Ming 1 (2011), Patria e morte. L’italianità dai Carbonari a Benigni, intervento presentato alla Biblioteca comunale di Rastignano (Bologna) il 17 marzo 2011. Disponibile su http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3496

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