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Cinema Impero: «Ci siamo trasferiti ad Asmara»

Domenica scorsa, camminando su via dell’Acqua Bullicante, a Roma, mi sono accorta che davanti all’ingresso del cinema Impero sono comparsi due manifesti. Sul primo (a destra nella foto sopra) c’è un brano di Pasolini, che più volte nelle sue opere aveva citato il quartiere di Tor Pignattara:

“Tornano giù” – disse il Riccetto accennando col capo verso il Prenestino.
“A matto”, fece I’altro, “ Tengo li sordi, che te credi”, spiegò il Riccetto, “ma ppe noi due soli però”. Lì Lenzetta prima diede un’occhiata a lui, poi si guardò intorno: “Aspetta.” disse. Gli altri si erano distratti. “Arzete” fece allora, “e vattene ggiù pe l’Acqua Bullicante, che io te vengo appresso.”
Chiacchierando si rifecero tutta la via dell’Acqua Bullicante, mentre alle loro spalle le sambe suonate al fonografo e i canti della processione andavano smorzando. C’era ormai solo qualcuno che tornava dal Preneste o dall’Impero verso la Borgata Gordiani, o verso il Pigneto, oppure qualche ubriaco che rincasava cantando ora Bandiera Rossa ora la Marcia Reale.

Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Einaudi, Torino 1979, pag. 80.

Sul secondo manifesto (a sinistra) campeggia ironicamente la scritta: «Ci siamo trasferiti ad Asmara». Effettivamente, la facciata del cinema Impero di Roma, costruito nel 1936 e chiuso nel 1983, è simile a quella del cinema Impero di Asmara, disegnata nel 1937 dall’architetto Marco Messina. Solo che il cinema di Asmara, considerato un gioiello dell’art-deco, è ancora oggi attivo, a simboleggiare l’eredità della presenza coloniale italiana in Eritrea. Non è un caso, infatti, che la sua facciata sia stata scelta per illustrare la copertina del n. 23 di «Zapruder», dedicato proprio alla memoria e alle rappresentazioni del colonialismo italiano. Il cinema Impero di Roma, invece, è ormai abbandonato da tempo, salvo una parentesi, dal 2003 al 2007, in cui era stato occupato dal Coordinamento cittadino di lotta per la casa. In quegli anni, l’ex cinema aveva offerto un tetto a persone autoctone e migranti (tra cui anche diverse di orgine eritrea), unite dalla lotta per il diritto all’abitare, diventando così, come altre occupazioni abitative a Roma, un vero e proprio laboratorio di convivenza interculturale.

Mi sono scervellata per qualche giorno chiedendomi chi avesse avuto la geniale idea di attaccare i due manifesti… finché oggi ho scovato il blog Zone di Cancellazione, che si propone di documentare, con diversi mezzi (scrittura, foto, video, musica), l’atto di varcare le soglie delle zone abbandonate che presentano sbarramenti: «cancellazioni che hanno origine da esigenze di difesa e di separazione tra l’interno di una proprietà o di una costruzione e tutto quanto si trovi all’esterno, sia esso potenzialmente pericoloso o semplicemente estraneo». Nella descrizione del progetto si spiega che il cancello – delimitando il confine tra «ciò che è permesso e ciò che non è permesso», tra ciò che «è conosciuto e perfettamente coerente con i codici culturali condivisi» e ciò che «è ignoto» – «rappresenta una linea di difesa dalla minaccia proveniente dall’esterno». Partendo dal presupposto che le zone di sbarramento si trovano in ogni parte del mondo, l’obiettivo del progetto è di documentare le pressioni interne ed esterne che mettono in crisi il sistema, contemplando anche «l’esito estremo di questa tensione, ovvero l’ex-cedere, l’andare al di là del limite, l’eccesso come atto che spezza il contorno e prevede la fuoriuscita dal sistema», per riflettere sul «confine mentale che separa fisicamente e culturalmente gli abitanti e i passanti di ogni luogo». L’idea nasce da TRAi, collettivo che pratica l’«appropriazione temporanea della scena urbana», ma chiunque può contribuire all’archiviazione, seguendo le istruzioni e inviando i propri materiali ai contatti indicati sul blog.

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