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Renata Pepicelli, Il velo nell’islam. Storia, politica, estetica

Ho scritto questa recensione per l’ultimo numero di «DWF», a cura del Laboratorio di studi femministi «Anna Rita Simeone» Sguardi sulle Differenze. È online anche sul sito della rivista, nella nuova sezione Recensiti da noi.

Renata Pepicelli, Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica

in «DWF – donnawomanfemme», n. 99, Confini (in)valicabili, 2013, 3, pp. 73-77

Seguendo le suggestioni che attraversano questo fascicolo di DWF, vorrei suggerire di leggere anche il velo come una sorta di “confine”: infatti ― come spiega Renata Pepicelli nel suo Il velo nell’Islam ― il termine hijab si riferisce a una separazione spaziale e visuale, che appunto divide ciò che si vede da ciò che non si vede, separando lo spazio pubblico da quello privato. Ed è proprio questa l’accezione originaria del termine, così come appare in numerosi versetti del Corano: il velo in quanto schermo, tenda, cortina che da una parte nasconde e protegge mentre, allo stesso tempo, rivela. Questa separazione tra fuori/dentro, aperto/chiuso, pubblico/privato riflette le relazioni di potere tra i generi nelle società islamiche: le donne infatti si coprono all’aperto, nello spazio pubblico, in presenza di potenziali mariti (uomini con i quali non c’è un legame familiare), mentre si scoprono nel privato, nello spazio domestico riservato alle donne, alla famiglia e dunque a quegli uomini coi quali non è possibile contrarre matrimonio. A uno sguardo attento, informato a una prospettiva critica femminista, non può sfuggire la costante riproposizione di un’economia binaria che ― sia in Oriente che in Occidente, seppure in forme diverse ― ha sempre limitato le libertà e ostacolato l’autodeterminazione delle donne: queste ultime, infatti, sono state sistematicamente collocate nel secondo polo di tali opposizioni dualistiche, quello che vale di meno, quello privato del potere e della libertà di scelta.

Il velo, inoltre, allude anche a un confine nel senso più letterale del termine, poiché segno di un’irriducibile alterità, in quanto simbolo identitario di appartenenza culturale, politica, etnica, religiosa, sia nel contesto coloniale che nella condizione postcoloniale. Nello sguardo orientalista ed esotizzante che caratterizza da sempre le società occidentali, l’immagine della donna velata rappresenta precisamente la quintessenza dell’alterità, l’emblema della sottomissione e dell’oppressione femminile, oltre che di una cultura islamica arretrata, oscurantista e misogina, che resisterebbe per sua natura all’integrazione; inoltre, nel clima islamofobo post-11 settembre, tale immagine ha finito per rappresentare una minaccia alla sicurezza nazionale, alla laicità e ai diritti faticosamente conquistati dalle donne in Europa e nel Nord America. La prospettiva degli studi femministi e postcoloniali, che l’autrice sceglie consapevolmente di adottare in questo libro, restituisce invece una capacità di azione consapevole a tutte le donne coinvolte nella questione del velo (che scelgano di indossarlo o meno), pur se inscritte in una complessa rete di rapporti di potere, che Pepicelli indaga in profondità, nel loro intreccio con la storia, la cultura, la società, la politica, la religione. Seguendo la lezione di femministe postcoloniali come Gayatri C. Spivak e Chandra T. Mohanty, e di africane americane come bell hooks ― che sono menzionate esplicitamente nella premessa, accanto ad altre studiose che hanno fortemente influenzato il suo lavoro (Meyda Yeğenoğlu, Emma Tarlo, Joan W. Scott, Leila Ahmed) ― l’autrice esplora dunque le motivazioni in base alle quali sempre più donne oggi, in ogni parte del mondo, scelgono di velarsi, mentre altre non lo fanno, riconoscendo a ognuna di esse la propria agency.

Ed è proprio in questo aspetto che risiede secondo me il contributo più prezioso offerto dal lavoro di Renata Pepicelli a chi desidera intraprendere oggi un progetto politico femminista. Grazie a una prospettiva storica e sociologica che parte dall’avvento dell’islam per arrivare fino ai giorni nostri, il volume ricostruisce infatti la complessità e la pluralità dei diversi significati attribuiti dalle donne a un pezzo di stoffa che suscita dibattiti infuocati sia nei paesi a maggioranza musulmana che nel resto del mondo. L’esame delle prescrizioni coraniche sull’uso del velo, corredata da una molteplicità di interpretazioni, è seguita da un’analisi dei «veli coloniali», utilizzati per giustificare la missione colonizzatrice e civilizzatrice dell’occidente. Tra il XVIII secolo e gli inizi del secolo scorso, la donna colonizzata ― la subalterna, direbbe Spivak ― è letteralmente ridotta al silenzio: l’immagine della donna velata è plasmata dall’immaginario esotico dei colonizzatori (viaggiatori, soldati, diplomatici e artisti che in alcuni casi non sono mai stati in oriente) che, attraverso le loro fantasie di conquista e sottomissione, contribuiscono ad affermare l’idea della presunta superiorità dell’occidente, contrapposta alla barbarie dell’oriente. Se la questione del velo assume un ruolo centrale nel discorso coloniale ― per i francesi, strappare il velo alla donna algerina significa conquistare l’Algeria stessa ― non stupisce che il velo si trasformi poi in un potente emblema della resistenza anticoloniale, finendo però per imprigionare le donne nell’immaginario della rivoluzione.

In aperta contrapposizione con le rappresentazioni orientalistiche, Pepicelli ricostruisce invece la realtà storica del Novecento come «il secolo dello svelamento»: almeno fino agli anni settanta del secolo scorso, infatti, le donne in paesi musulmani come Turchia, Iran, Egitto e Tunisia decidono di abbandonare il velo e affermano la propria presenza nello spazio pubblico, contribuendo attivamente alle profonde trasformazioni politiche e sociali in atto nei loro paesi. Una decisa inversione di tendenza si rileva a partire dagli anni settanta del Novecento, quando si assiste a un inaspettato ritorno del velo, che però non si configura esclusivamente come un simbolo di opposizione politica ma, piuttosto, come espressione dell’adesione, da parte delle donne, a un revival spirituale, forse connesso alla disillusione provocata dal fallimento degli ideali post-indipendenza. Queste donne scelgono autonomamente di indossare il velo perché, oltre a seguire una prescrizione religiosa, lo vedono come uno strumento di difesa della propria sessualità, che consente loro di accedere liberamente allo spazio pubblico. Certo ― precisa l’autrice ― «indossare il velo in un paese a maggioranza islamica è diverso da indossarlo in un paese europeo», ma proprio per questo è importante ricostruire i posizionamenti specifici delle dirette interessate da New York al Cairo, seguendo il processo descritto puntualmente in questo volume, che riconosce sempre alle donne un ruolo di primo piano, in quanto protagoniste attive, piuttosto che vittime, dell’attuale revival religioso che interessa tutte le religioni, in tutte le parti del mondo.

Da questo percorso emerge come anche il dibattito femminista sui «veli postcoloniali», che caratterizzano le metropoli europee contemporanee in seguito alle migrazioni, si sia concentrato finora sulla necessità di scegliere tra due posizioni estremamente polarizzate e apparentemente inconciliabili: essere favorevoli o contrarie al velo. Si pensi ad esempio al caso francese della legge che vieta l’ostentazione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, che ha spaccato in due il movimento femminista francese, finendo per limitare l’accesso delle ragazze velate all’istruzione pubblica. Oppure al dibattito scatenatosi in Italia dopo i femminicidi di Hina Saleem e Sanaa Dafani, uccise dai padri a causa delle pressioni sociali esercitate da familiari e membri delle rispettive comunità di origine, che consideravano i loro comportamenti «troppo occidentali». In entrambi i casi, le scelte e i desideri delle giovani donne coinvolte non sono stati presi in considerazione nel dibattito pubblico e le loro voci sono rimaste inascoltate, anche da una certa parte del movimento femminista. In particolare, a proposito dell’affaire du voile in Francia, Pepicelli sostiene che le donne che indossavano il velo «sono state necessariamente ritenute vittime più o meno consapevoli di una cultura patriarcale»: i sostenitori della legge contro il velo hanno voluto difendere il principio della laicità dello stato in contrapposizione a ogni forma di comunitarismo; i suoi oppositori si sono concentrati sul carattere discriminatorio e razzista del divieto; ma in ogni caso, la voce delle dirette interessate (le donne che lo indossano) è rimasta in secondo piano e la loro autonomia di scelta non è stata riconosciuta.

Per quanto riguarda il caso italiano, piuttosto paradossalmente, l’immagine delle donne musulmane come vittime da «salvare e svelare» ha accomunato le iniziative intraprese da donne di posizioni politiche opposte, come l’onorevole Daniela Santanché ― che nel 2009, all’indomani della morte di Sanaa, ha interrotto le celebrazioni del Ramadan per protestare contro il velo integrale ― o come la deputata PdL di origini marocchine Souad Sbai ― promotrice di un disegno di legge finalizzato a introdurre nell’ordinamento italiano il reato di «costrizione all’occultamento del volto», vietando di fatto l’uso nei luoghi pubblici di burqa e niqab ― fino all’esortazione della giornalista del manifesto Giuliana Sgrena: «Liberiamo le donne […] Diamo loro la possibilità di guardare il mondo […] Aiutiamo queste donne, anche con una legge […] Noi di sinistra dobbiamo essere in prima fila a difendere i diritti delle donne, tutte». Evidentemente, Sgrena non si riferiva qui a tutte le donne, ma alle musulmane in particolare che, in linea con la retorica coloniale, avrebbero bisogno di essere aiutate a liberarsi, perché non sarebbero in grado di farlo da sole. Per tutta risposta, Pepicelli cita una lettera aperta sottoscritta nel 2010 da ventisette donne italiane convertite all’islam, le quali espongono il proprio punto di vista, in quanto dirette interessate, specificando di aver scelto liberamente di indossare il velo integrale (dunque non chiedono «di essere liberate da prigioni e secondini») e precisando di non sentirsi assolutamente “oppresse”.

Grazie a interviste, documenti e testimonianze dirette, oltre che facendo riferimento a una ricca ed esaustiva bibliografia, questo libro contribuisce dunque attivamente a decostruire i pregiudizi, le inesattezze e le imprecisioni spesso diffusi nei media e nel dibattito politico: ad esempio, offrendo informazioni dettagliate sulla terminologia corretta per definire le varie tipologie di velo; oppure, ridimensionando i dati relativi al numero di persone che indossano il velo integrale nelle metropoli dell’occidente; documentando anche l’emergere del fenomeno della moda islamica, nei suoi nessi con le trasformazioni dei canoni estetici e con il mercato globale della moda; fino ad analizzare le opere di Princess Hijab, che trasformano il velo in uno strumento di provocazione artistica e politica. Inoltre, e qui sta il significato politico più importante, in un’ottica femminista, Pepicelli riesce efficacemente nell’intento di decostruire l’immagine orientalista e (neo)coloniale della donna velata come vittima inconsapevole dell’oppressione patriarcale, incapace di autodeterminarsi e di liberarsi, bisognosa della tutela paternalistica della donna occidentale. Quest’immagine, come insegna Mohanty quando scrive della produzione della «donna media del Terzo Mondo», serve innanzitutto a riconfermare la presunta superiorità delle donne occidentali, che possono rappresentarsi come padrone del proprio corpo e libere di prendere decisioni autonome, oltre che come salvatrici di tutte le altre.

Su queste basi, a partire da questa contrapposizione, come è possibile pensare di costruire un progetto politico femminista che unisca donne così diverse tra loro in nome di un obiettivo comune? È forse questo l’interrogativo che rimane ancora aperto dopo aver letto il libro di Renata Pepicelli, che di certo non offre risposte preconfezionate o ricette miracolose in tal senso. Offre però degli strumenti preziosi per superare la sterile contrapposizione tra chi è favorevole e chi è contraria al velo, ragionando su quali dovrebbero essere gli interrogativi più utili da porsi per comprendere una realtà in cui tutte e tutti oggi siamo immerse. Come afferma la protagonista del romanzo di Leila Djitli citata nell’introduzione: «La questione non è dunque essere favorevole o contraria al velo. La vera questione è perché vuoi portarlo, tu, oggi, qui?». A questo interrogativo il libro risponde sicuramente, offrendo gli strumenti per conoscere prima di giudicare. Non perché sul velo non si possa esprimere un giudizio o prendere una posizione ― specie da una prospettiva femminista e laica, che vede in ogni religione uno strumento di controllo sui corpi delle donne ― ma semplicemente perché, prima di farlo, è necessario conoscere le ragioni di chi lo indossa, invece di misurare l’emancipazione femminile solo «a seconda di quanta parte del corpo viene lasciata scoperta»; e soprattutto è necessario esplorare le pratiche di resistenza messe in atto dalle donne (e dalle minoranze sessuali) contro il sistema patriarcale ed eteronormativo, in diverse parti del mondo. Infine, ha perfettamente ragione l’autrice quando sostiene ― seguendo Edward Said e Joan Scott ― che il dibattito sul velo ci racconta, molto più di quanto si possa pensare, della percezione che l’occidente ha di sé e dei propri altri, e che la questione del velo non riguarda solo il mondo musulmano, ma ci interpella tutte e tutti.

Sonia Sabelli

Posted in da riviste, in libreria, scritti da me.

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One Response

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  1. Conte says

    se dobbiamo considerare libere le donne musulmane velate e rispettarle è giusto ma allora dobbiamo considerare allo stesso modo le donne occidentali che hanno aspirazioni “non abbastanza femministe” per i nostri criteri.
    Comunque per me conta che la figlia della donna col velo sia libera di decidere di non portarlo o anche di abbandonare l’islam senza essere ripudiata o peggio dalla famiglia