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Sulla morte di Stuart Hall

Leggendo la notizia della morte di Stuart Hall sul «Guardian», non ho potuto fare a meno di pensare che la definizione di «godfather of multiculturalism», padrino del multiculturalismo, fosse riduttiva e poco appropriata per uno studioso che è stato capace di mettere in luce i limiti e le contraddizioni profonde insite nelle forme assunte dal multiculturalismo nelle società liberiste. Con piacere segnalo dunque questo articolo di Benedetto Vecchi che parte proprio dalla stessa constatazione, per ricostruire il percorso politico e teorico dello studioso di origine giamaicana che ha contribuito alla nascita e all’affermazione degli studi culturali.

La sfida sovversiva di Stuart Hall
Addii. Lettore attento di Antonio Gramsci, è stata una figura centrale nello sviluppo degli «studi culturali» come arma critica del potere costituito

Benedetto Vecchi, «il manifesto», 11.2.2014

Il primo sito che ha dato ampio risalto alla morte di Stuart Hall è stato quello del Guar­dian, qua­li­fi­can­dolo come «il nonno del mul­ti­cul­tu­ra­li­smo». Un tri­buto alla sua opera nelle inten­zioni, che can­cella però la cri­tica che l’intellettuale di ori­gine gia­mai­cana aveva rivolto pro­prio con­tro il mul­ti­cul­tu­ra­li­smo: lo con­si­de­rava un’attitudine all’integrazione raz­ziale sotto il segno della pre­do­mi­nanza del pen­siero «bianco», pre­fe­ren­do­gli invece la messa a tema della «riap­pro­pria­zione» che i «subal­terni» hanno fatto di quel pen­siero. Nel mondo post­co­lo­niale gli eredi euro­pei e sta­tu­ni­tensi del pen­siero illu­mi­ni­sta si tro­vano infatti a fare i conti con quella tor­sione radi­cale, altera e a tratti sov­ver­siva, impressa dai domi­nati all’ordine del discorso domi­nante. È a que­sta riap­pro­pria­zione che Stuart Hall ha dedi­cato gran parte della sua vita.

Stuart Hall è stato sem­pre un intel­let­tuale «sco­modo» nella sini­stra inglese. Nel 1956 aveva lasciato il pic­colo par­tito comu­ni­sta, sbat­tendo la porta dopo l’invasione sovie­tica dell’Ungheria. Ma a dif­fe­renza di altri fuo­riu­sciti, era rima­sto comu­ni­sta. È pro­prio alla fine degli anni Ses­santa che che entra in più stretti rap­porti con lo sto­rico Edward P. Thomp­son, lo sto­rico della cul­tura Ray­mond Wil­liams e il filo­sofo Perry Ander­son, altre figure ete­ro­dosse del mar­xi­smo bri­tan­nico. Con loro fonda la «New Left Review», la pre­sti­giosa rivi­sta nata con l’intento di «inno­vare» la prassi teorica-politica della sini­stra radi­cale inglese, aprendo le porte a filo­sofi come Lous Althus­ser, Jean-Paul Sar­tre e, gra­zie al pre­li­mi­nare lavoro di tra­du­zione di Perry Ander­son e Eric Hob­sbawm, Anto­nio Gramsci.

La cri­tica al liberismo

Hall è stato una figura rile­vante della «New Left Review»: ne è stato il diret­tore fino a quando, pole­mi­ca­mente, ne è uscito, accu­sando la rivi­sta di essersi tra­sfor­mata in una pic­cola e auto­re­fe­ren­ziale acca­de­mia del pen­siero cri­tico. Da allora, il suo lavoro poli­tico si è con­cen­trato sulla «que­stione raz­ziale», facendo diven­tare l’etnia e le iden­tità post­co­lo­niali nodi rile­vanti del pen­siero cri­tico. Nella sua vita, Stuart Hall ha scritto molto, ma ha pre­scelto la forma del sag­gio, quasi a segna­lare le tappe di un per­corso intel­let­tuale dotato di sicure coor­di­nate cul­tu­rali ma dispo­ni­bile a «deviare» dal trac­ciato defi­nito nel caso che la realtà scon­fessi i risul­tati acqui­siti. Un atteg­gia­mento che ha man­te­nuto anche nella sua ana­lisi di Mar­ga­ret That­cher e del liberismo.

La «Lady di ferro» è la bestia nera dei sin­da­cati e del Labour party, che non rie­scono però a con­tra­starla. È in quel periodo che Stuart Hall comin­cia a pub­bli­care scritti sulla «natura» del governo della Tat­cher. Per Hall, la That­cher non è un inci­dente di per­corso, che poteva essere «cor­retto» con il ritorno al governo del par­tito labu­ri­sta. Il libe­ri­smo è infatti visto dall’intellettuale inglese come un pro­getto di società dive­nuto ege­mone dal punto di vista cul­tu­rale. Un dise­gno di società che poteva certo essere inter­pre­tato cri­ti­ca­mente attra­verso la cate­go­ria della «rivo­lu­zione pas­siva» di Anto­nio Gram­sci, ma che costi­tuiva tut­ta­via un forte ele­mento di discon­ti­nuità rispetto al pas­sato. Il wel­fare era stato sì la cor­nice del com­pro­messo tra capi­tale e lavoro, ma il libe­ri­smo non voleva solo modi­fi­care quel rap­porto di forza, ma si pro­po­neva di imporre pro­prio una nuova vision dei rap­porti sociali dove il sin­golo diven­tava il ful­cro della vita asso­ciata. La frase di Mar­ga­ret That­cher sull’inesistenza della società a favore dell’«individuo sovrano» espri­meva fino in fondo il cuore nero di una welt­an­shauung che non pre­ve­deva una qual­che forma di con­ti­nuità con il pas­sato. La forza cul­tu­rale della «rivo­lu­zione libe­ri­sta» stava pro­prio, secondo Hall, non solo nell’autoritarismo popu­li­sta di Mar­ga­ret That­cher, bensì nell’egemonia cul­tu­rale, ideo­lo­gica che ormai eser­ci­tava sulla società.

Sono scritti rite­nuti spesso ere­tici dal resto della sini­stra inglese. In Ita­lia sono stati rac­colti molti anni dopo nei volumi Poli­ti­che del quo­ti­diano (Il Sag­gia­tore) e Il sog­getto e la dif­fe­renza (Mel­temi), men­tre ci sono forti echi anche nel libro-intervista di Miguel Mel­lino La cul­tura e il potere (Mel­temi). Ma sono testi che evi­den­ziano anche una svolta nella rifles­sione di Stuart Hall, la sua presa di distanza dal «mar­xi­smo cul­tu­rale» inglese, fino ad allora stella polare della sua prassi teo­rica. La sua ana­lisi del libe­ri­smo, respinta ini­zial­mente da gran parte della sini­stra inglese, farà invece scuola, tro­vando forti asso­nanze con le tema­ti­che fou­caul­tiane della bio­po­li­tica e con l’analisi di David Har­vey sul capi­ta­li­smo pre­da­to­rio di fine Nove­cento. Un mar­xi­sta fuori dal coro della vec­chia e nuova orto­dos­sia, come dimo­strano anche gli ultimi scritti sul ruolo ambi­va­lente delle tec­no­lo­gie digi­tali: mezzi per costruire il con­senso, ma anche poten­ziali stru­menti di cri­tica al potere.

La scuola di Birmingham

Nato a King­ston in Gia­maica nel 1932, Stuart Hall si era lau­reato con una tesi sulla let­te­ra­tura inglese per poi con­cen­trarsi sullo stu­dio di autori «carai­bici». E quando la sua car­riera uni­ver­si­ta­ria sem­brava essere defi­nita, si tra­sfe­ri­sce in Inghil­terra. Nel 1964 viene chia­mato da un decano della cri­tica lat­te­ra­ria, Richard Hog­gart, a lavo­rare al «Cen­tre for Con­tem­po­rary Cul­tu­ral Stu­dies» presso l’Università di Bir­mi­gham, cen­tro che diri­gerà per molti anni prima della docenza alla Open Uni­ver­sity. È in quel con­te­sto che Hall appro­fon­di­sce lo stu­dio dell’opera mar­xiana e di Anto­nio Gramsci.

Del filo­sofo comu­ni­sta ita­liano usa la cate­go­ria dell’egemonia, attra­verso la quale stu­dia il rap­porto tra cul­tura domi­nante e cul­tura popo­lare. Per Hall, l’egemonia del pen­siero domi­nante si eser­cita ovvia­mente attra­verso la for­ma­zione sco­la­stica, ma anche attra­verso le «fab­bri­che del con­senso», cioè i media emer­genti (la radio e la tele­vi­sione) e la carta stam­pata. È un’egemonia che non coin­cide con una colo­niz­za­zione della vita sociale. Per Hall, infatti, la cul­tura popo­lare è espres­sione sia dell’egemonia del pen­siero domi­nate, ma è anche il con­te­sto per una rap­pre­sen­ta­zione «pub­blica» delle forme di resi­stenza al potere domi­nante. Un’interpretazione, va da sé, anche que­sta ete­ro­dossa. D’altronde, Bir­min­gham è l’Università dove si forma una nuova leva di stu­diosi e intel­let­tuali che inda­gano il ruolo della musica popo­lare nello svi­luppo dei movi­menti sociali che con­te­stano l’ordine costi­tuito. L’attitudine mods della gio­vane wor­king class, la tra­sgres­sione dei roc­kers, lo spi­ri­tua­li­smo rasta, la musica ska fino all’esplosione punk sono da con­si­de­rare come la suc­ces­sione di una «rivolta dello stile» dove la cul­tura domi­nante viene «rein­ven­tata» dai subal­terni per espri­mere la loro alte­rità. Il merito di Stuart Hall è di aver sem­pre evi­den­ziato l’ambivalenza della cul­tura popo­lare: forme del domi­nio, ma anche pos­si­bili campi di sov­ver­sione dei rap­porti sociali dominanti.

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