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Sulle donne e il carcere

Oggi il sito Zero Violenza Donne (che offre ogni giorno una rassegna stampa di genere) pubblica uno speciale sulle donne e il carcere che, oltre a informazioni e statistiche, contiene interventi di Silvia Giacomini (Le marginali), Giuseppe Caputo (Le carceri italiane della vergona), Lucia Re (La sessualità rimossa nelle carceri italiane), Giovanna Longo (Leda Colombini), Luca Cardin (Parla la direttrice del carcere di Bollate), e anche un mio contributo che si può leggere qui e di seguito:

La violenza contro le detenute:
nelle caserme, nelle carceri e nei Cie

di sonia sabelli

Abbiamo sempre detto che «per ogni donna stuprata e offesa siamo tutte parte lesa». Ma cosa cambia se chi subisce una violenza sessuale è una donna o una transessuale? se è bianca o nera? migrante o cittadina? imprenditrice, operaia o disoccupata? libera o detenuta? “santa” o “puttana”? Vorrei suggerire qui alcuni spunti di riflessione sulla necessità di utilizzare le categorie di genere, razza e classe, per reagire alla violenza sessuale oggi in Italia.

Nelle aule dei tribunali, le donne che denunciano uno stupro sono spesso trattate come imputate e i difensori degli stupratori si affannano a demolire la loro credibilità, facendo leva sulla loro presunta immoralità e disponibilità. Niente di più facile se la vittima eccede la norma morale ed eterosessuale, se attraversa i confini dell’identità nazionale o infrange la linea del colore. Meglio ancora – per distruggere la sua credibilità – se lei è una detenuta, una lavoratrice del sesso o una “clandestina”, e se lo stupratore è anche il suo carceriere. Infatti, sia che si trovi in carcere per aver commesso un reato, sia che si trovi in un Cie perché non ha i documenti in regola, lei è considerata “illegale” e rappresenta una “minaccia” per la sicurezza pubblica che lui, invece, dovrebbe tutelare.

La donna che ha denunciato di essere stata violentata dai carabinieri che l’avevano in custodia, in una caserma a Roma, è stata subito dipinta dalla stampa come una ragazza madre, senza casa e lavoro: una ragazza giovane e bella ma «dalla vita complicata». Mentre il comando generale dei carabinieri si affrettava a sottolineare che i militari coinvolti possono vantare un «foglio disciplinare immacolato», loro si difendevano sostenendo che lei era «consenziente». Come se una persona privata della propria libertà potesse essere libera di scegliere.

Inoltre, il sindaco di Roma ha assicurato che le «eventuali mele marce» saranno immediatamente isolate; ma c’è chi si domanda se marce siano solo alcune mele, oppure tutta la piantagione. A partire da questo interrogativo, alcune femministe hanno compilato una lista dei più recenti episodi di violenze sessuali compiute dagli uomini delle forze dell’ordine, da distribuire l’8 marzo in diverse città. Nella maggior parte dei casi si tratta di violenze subite da donne e transessuali recluse nelle caserme, nelle carceri e nei Cie. Violenze che si consumano proprio a partire dalla relazione di potere che si instaura tra carcerate e carcerieri (così come nei secoli scorsi avveniva nelle colonie, tra colonizzate e colonizzatori, o nelle piantagioni, tra schiave e padroni).

In particolare, sembra che le molestie e i ricatti sessuali nei confronti delle recluse nei Cie siano all’ordine del giorno: ogni necessità legata alla loro sopravvivenza quotidiana (dal pacchetto di sigarette alla scheda telefonica) può essere soddisfatta in cambio di una prestazione sessuale fornita ai rappresentanti delle forze dell’ordine o agli operatori degli enti gestori.

Nel 2009 noinonsiamocomplici – uno slogan con cui è stato avviato un percorso di donne, femministe e lesbiche contro i Cie, come luoghi privilegiati della violenza contro le migranti – ha diffuso un Dossier sulle violenze fuori e dentro i Cie contro le donne migranti, che fa risalire al 1999 le prime testimonianze di molestie sessuali nei confronti delle detenute.

Emerge così una realtà in cui i carcerieri sono liberi di disporre dei corpi delle recluse, coperti dalla connivenza istituzionale, perché quello che avviene all’interno delle “gabbie” rimane confinato in questi luoghi remoti e invisibili, veri e propri campi di internamento in cui vige un perenne stato di eccezione. E se qualcuna reagisce, difficilmente trova ascolto e sostegno. L’esperienza di Joy – la donna nigeriana che ha denunciato un ispettore di polizia per la violenza subita mentre era detenuta nel Cie di via Corelli a Milano – dimostra che, in un’aula di tribunale, la parola di una “straniera” conta decisamente meno di quella di un uomo in divisa. Infatti, durante il processo, non solo il suo racconto non è stato ritenuto “attendibile”, ma per di più Joy è stata ripagata con una denuncia per calunnia.

Le motivazioni dell’assoluzione dell’ispettore Vittorio Addesso sono una summa dei peggiori stereotipi razzisti, al servizio di una strategia che mira a demolire la credibilità di Joy. Come si legge nel documento, in un processo per stupro le dichiarazioni della vittima «possono costituire da sole prova sufficiente per l’affermazione della responsabilità penale» dello stupratore, ma ciò può avvenire «solo dopo avere doverosamente e rigorosamente vagliato l’attendibilità della persona offesa».

Ecco che allora – nella peggiore tradizione dei processi per stupro, in cui la vittima si trasforma in imputata – si sottolineano (anche graficamente) le «numerose incongruenze» delle dichiarazioni di Joy; la si dipinge come colei che capeggia la protesta delle recluse nigeriane, che nel Cie si distinguono per «comportamenti particolarmente violenti e scomposti»; e si fa notare che nessun’altra detenuta, né nigeriana, né di «razza bianca» (sì, sembra incredibile ma c’è scritto proprio così) ha testimoniato a suo favore. Dimenticando che le altre ragazze presenti sono state «deportate in Nigeria prima di poter parlare».

Inoltre Hellen, l’unica teste a suo favore, che però si esprimerebbe «in modo un po’ disordinato», non sarebbe attendibile perché condivide con Joy la nazionalità, la condizione di “irregolarità” e l’accusa di aver partecipato alla rivolta contro la legge che ha prolungato la detenzione nei Cie fino a sei mesi. Così, dimostrata l’«inattendibilità delle dichiarazioni delle due donne», e dimostrato che il loro racconto è illogico e inverosimile semplicemente perché descrive una situazione «assurda» (!), il giudice conclude con certezza che il fatto non sussiste.

Sono invece considerate attendibili le dichiarazioni dell’ispettore Addesso, che respinge «con fermezza» le accuse, suggerendo che la denuncia è uno strumento per ottenere un permesso di soggiorno e sfuggire così all’espulsione, e quelle di Mauro Tavelli, l’altro ispettore in servizio a via Corelli, poi condannato a sette anni e due mesi di reclusione per aver violentato una transessuale brasiliana reclusa nello stesso Cie. Ma di questo non si fa cenno nel testo, così come non si accenna nemmeno al fatto che Joy, come tante altre ragazze nigeriane rinchiuse nei Cie, è una vittima di tratta e in quanto tale ha diritto a un permesso di soggiorno.

Non è un caso che, a parte poche eccezioni, la stampa non abbia dedicato alcuna attenzione a questa vicenda: la reazione dei media e dell’opinione pubblica italiana di fronte alla violenza sessuale è fortemente condizionata dall’etnicità degli stupratori e delle vittime; le prime pagine della cronaca sono riservate allo “stupratore immigrato” e una donna nera violentata da un uomo bianco non fa notizia.

Stupisce invece che – nonostante alcuni collettivi di femministe e lesbiche abbiano avviato un percorso di lotta con Joy, che è riuscito a bloccare i numerosi tentativi di chiuderle la bocca rispedendola in Nigeria – le donne non si siano mobilitate in massa al suo fianco. Se la grande manifestazione femminista del novembre 2007, all’indomani dell’omicidio di Giovanna Reggiani, era stata capace di denunciare la strumentalizzazione della violenza sessuale a fini razzisti, oggi non siamo state in grado di fare altrettanto. E invece, davanti al rischio che Joy si trovi ancora in un’aula di tribunale a dover fronteggiare, stavolta nel ruolo di imputata, un procedimento per calunnia, è necessario continuare a mantenere alta l’attenzione, allargando la mobilitazione e moltiplicando le iniziative a suo favore.

Mentre le leggi che dovrebbero contrastare la violenza sessuale sembrano spesso orientate solo a proteggere i corpi delle donne bianche e di classe media dalla minaccia dello “straniero stupratore” (giustificando provvedimenti xenofobi e securitari), la lotta contro le violenze subite dalle migranti recluse nei Cie rimane confinata solo a una parte del movimento femminista e/o antirazzista. Invece dovrebbe essere una priorità per tutte noi. Una strategia efficace contro lo stupro non può prescindere, infatti, dal riconoscimento dell’intersezione di genere, razza, classe e dalla necessità di contrastare sia il sessismo che il razzismo, non solo sostenendo le donne migranti che subiscono la violenza sessuale, ma soprattutto lottando insieme per smascherare la manipolazione razzista e classista dello stupro.

per maggiori informazioni: noinonsiamocomplici

 Aggiornamento novembre 2011

Questo articolo è stato appena ripubblicato nel Quaderno 7 allegato a Scarceranda 2012 (pp. 65-70) e si può leggere in pdf da qui.

Posted in da riviste, scritti da me.

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