Tricolore. Bandiere pericolose
di Sonia Sabelli
[in Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat, Vincenza Perilli (a cura di), Femministe a parole. Grovigli da districare, Ediesse, Roma 2012, pp. 279-286]
Il tricolore, in quanto emblema dell’identità nazionale italiana, è stato storicamente associato a una cultura nazionalista e patriottica, conservatrice, belligerante e tradizionalmente di destra. Nell’Italia di oggi, invece, nonostante la crisi dello stato-nazione, sembra che esporre con orgoglio la bandiera tricolore sia divenuto un comportamento appropriato anche negli ambienti progressisti e di sinistra, generalmente associati a una prospettiva europeista, pacifista, internazionalista. Ma, spesso, chi mette in atto una tale affermazione dell’italianità dimentica che l’idea di nazione presuppone l’esistenza di un ipotetico noi – fondato su una comunanza di tratti culturali presentati come naturali[1] – da contrapporre a coloro che sono considerati altri, perché diversi, stranieri e, potenzialmente, anche nemici. Del resto la bandiera è sempre stata uno dei simboli più potenti ed efficaci della dominazione militare, coloniale e imperialista, come nel caso dell’immagine seguente (fig. 1). E questa sarebbe già una ragione sufficiente per essere sospettose di fronte ai recenti tentativi di riattivare il patriottismo e il nazionalismo, sia da destra che da sinistra.
Secondo lo storico Alberto Mario Banti, che ha analizzato la costruzione del discorso nazional-patriottico in Italia dal Risorgimento al fascismo, dovremmo essere consapevoli che l’uso di termini come patria e nazione porta con sé una serie di valori che producono potenti effetti performativi, poiché «inducono a pensare la nazione come parentela, come discendenza di sangue, come memoria storica esclusiva e selettiva, come valorizzazione di narrazioni bellicistiche e maschiliste» (Banti, 2011, p. 208). Chi oggi si preoccupa di riaffermare l’identità nazionale italiana finisce dunque per dimenticare che essa si fonda su una rigida linea del colore (cfr. colore), sulla distinzione binaria tra due diversi ruoli sessuali (maschio e femmina eterosessuali) e sull’attribuzione della cittadinanza (cfr. cittadinanza) in base al diritto di sangue (che informa la legislazione sulla cittadinanza fin dal Regno d’Italia). Il ritardo italiano nella produzione di una riflessione critica sul privilegio della bianchezza (cfr. bianchezza), sul nesso tra genere, eteronormatività e nazione, così come sul criterio familista/parentale, continua a riprodurre gerarchie di potere e meccanismi di inclusione ed esclusione: è in base a tali criteri selettivi, infatti, che le soggettività che fanno parte delle minoranze (razziali, sessuali, linguistiche, religiose, ecc.) possono avere accesso all’appartenenza nazionale e, dunque, alla piena cittadinanza, oppure possono essere considerate «illegali».