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Femminismo nero e postcoloniale

Ho scritto questo breve paragrafo per il volume Identità e differenze. Introduzione agli studi delle donne e di genere, a cura di Maria Serena Sapegno, Mondadori Università, Roma 2011, pp. 189-93 (fa parte dell’ottavo capitolo, Femminismo e femminismi dagli anni Ottanta al XXI secolo, di Monica Pasquino).

Femminismo nero e postcoloniale

di Sonia Sabelli

identitaedifferenzeIl black feminism (femminismo nero) denuncia il razzismo e l’eurocentrismo (la tendenza tipicamente europea a considerare il resto del mondo una propria periferia) che caratterizzano parte del femminismo bianco e occidentale. Il femminismo nero si afferma negli Stati Uniti, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, a partire dalla consapevolezza che sia il femminismo bianco, sia il movimento per i diritti civili degli afroamericani, avevano cancellato l’esperienza materiale delle donne nere.

Le femministe afroamericane affermano dunque la necessità di articolare riflessioni teoriche, pratiche politiche e forme di organizzazione che siano fondate sulla critica del razzismo e del sessismo che le donne nere sperimentano. Sviluppano inoltre metodi analitici per interpretare il modo in cui razza e genere incidono sulle loro vite, ad esempio introducendo la nozione di «intersezionalità», cioè intersecando, appunto, i diversi ‘assi’ della differenza (genere, razza, etnicità, classe, scelte sessuali), per mostrare quanto sia inefficace una teoria che tenga conto di uno solo di questi assi. Infatti storicamente le donne nere hanno combattuto simultaneamente sia contro il razzismo che contro il sessismo, riconoscendoli come due sistemi di potere che sono sempre interconnessi. Anche l’opera di alcune scrittrici afroamericane – come Audre Lorde (Sister Outsider, 1984), Alice Walker (Il colore viola, 1982) e Toni Morrison (Amatissima, 1987) – è centrale per il femminismo nero, mentre la loro capacità di attraversare i generi letterari combinando narrativa, teoria e autobiografia diventa un tratto specifico della scrittura femminista nera.

Sul finire degli anni Ottanta l’accento sulle politiche identitarie – fondamento intellettuale del femminismo nero, ma anche di altri gruppi minoritari che basano le proprie pratiche politiche sull’autorità dell’esperienza e sul proprio senso di appartenenza, come neri, gay, ebrei – diviene problematico, in seguito all’impatto delle nuove tendenze filosofiche che mettono in discussione la nozione tradizionale di identità. La teorica afroamericana bell hooks, nel saggio Negritudine postmoderna (1991), sostiene la necessità di superare una nozione essenzialista, limitata e costrittiva della nerezza (come un’identità unica e coerente), affermando la pluralità delle identità nere come il risultato dell’incrocio di una molteplicità di esperienze, perché un radicale processo di decolonizzazione deve partire dall’abbandono di ogni essenzialismo, in favore della ricerca di modi oppositivi e liberatori di costruire il sé e l’identità.

Nel corso degli anni Novanta, i movimenti femministi che si sviluppano nei paesi del sud del mondo – dall’India al Sudafrica, dall’America Latina al Medio Oriente – sottolineano la necessità di riconoscere le differenze tra le donne, che il femminismo bianco e occidentale tenderebbe a cancellare tramite l’imposizione di un unico modello di liberazione e di emancipazione, articolato sulla base dei desideri e delle esperienze delle donne occidentali. Inoltre, i movimenti di popolazione dentro e fuori i confini dell’Europa determinano la presenza nelle metropoli europee di femministe provenienti dai paesi colonizzati, che contribuiscono a complicare il dibattito teorico sulla soggettività femminista, introducendo gli strumenti offerti dagli studi postcoloniali.

Il termine «postcoloniale» (vale a dire: dopo il colonialismo) si riferisce al declino del colonialismo europeo, che prende avvio fin dalla metà del XX secolo, e a quell’insieme di teorie filosofiche e politiche, storiche e letterarie, che si sviluppano in seguito al processo di decolonizzazione. Gli studi postcoloniali si affermano nel corso degli anni Ottanta e Novanta nelle università europee e nordamericane a partire dai testi fondanti di Frantz Fanon (I dannati della terra, 1967), Jacques Derrida (La mitologia bianca, 1974) e Edward Said (Orientalismo, 1978). In questo contesto, un’élite di studiosi e studiose originarie degli ex territori colonizzati afferma l’importanza di studiare il colonialismo per comprendere il presente, a partire dal riconoscimento delle relazioni di potere che ancora sussistono tra l’Occidente e il cosiddetto Terzo Mondo. La persistenza di politiche imperialiste e neocoloniali rende però problematico l’uso del termine postcoloniale, che presupporrebbe la fine del colonialismo, ma su questo punto il dibattito è ancora aperto.

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Le donne nere negli Stati Uniti hanno usato il termine «colonizzazione» per descrivere l’appropriazione delle loro lotte ed esperienze da parte del femminismo bianco, che dovrebbe essere considerato nel contesto di un’egemonia globale della cultura occidentale. Nel saggio Sotto gli occhi dell’occidente. Saperi femministi e discorsi coloniali (1988), la femminista indiana Chandra Talpade Mohanty, che insegna negli Stati Uniti, sostiene che questa colonizzazione si realizza innanzitutto sul piano del discorso, quando alcune teoriche del femminismo occidentale pretendono di parlare delle esperienze delle donne del Terzo Mondo, assumendo come proprio punto di riferimento le esperienze delle donne bianche e occidentali.

Mohanty contribuisce a decostruire gli stereotipi sulla ‘donna del Terzo Mondo’ rilevati nei testi delle femministe occidentali: questi ultimi, infatti, rappresentano la ‘donna del Terzo Mondo’ come un (s)oggetto singolare e monolitico (sessualmente subordinata, ignorante, povera, legata alla famiglia e alla tradizione, religiosa, addomesticata, vittimizzata), come ‘altra’ in una implicita relazione gerarchica con la donna occidentale (istruita, moderna, capace di controllare il proprio corpo e la propria sessualità, libera di prendere le proprie decisioni). Queste pratiche discorsive – che secondo Mohanty sono la manifestazione di una relazione di potere in cui la rappresentazione in negativo della ‘donna del Terzo Mondo’ rende possibile l’autorappresentazione in positivo delle donne occidentali – si basano sull’assunto che le donne siano un gruppo coerente e già costituito, preesistente rispetto alle relazioni sociali e al processo d’analisi. Da qui deriva una nozione omogenea e riduttiva del patriarcato e dell’oppressione delle donne, che non tiene conto della specificità dei diversi contesti storici, locali e culturali.

In un altro testo fondamentale per il femminismo postcoloniale, Can the Subaltern Speak? (1988), Gayatri Chakravorty Spivak, bengalese di nascita che vive negli Stati Uniti, ragiona su come l’Occidente rappresenta le donne colonizzate, concludendo provocatoriamente che non c’è alcuna possibilità per queste donne di far sentire la propria voce. Paralizzata tra gli interessi nazionalistici del patriarcato indigeno e quelli del governo coloniale («uomini bianchi che pretendono di salvare donne scure da uomini scuri»), la donna colonizzata è stata ridotta al silenzio e privata di una capacità di azione consapevole: non può rappresentare se stessa, deve essere rappresentata.

Assumere le donne bianche e occidentali come il referente primario della teoria e della prassi – sostengono le femministe nere e postcoloniali, che hanno contribuito alla proliferazione dei femminismi (al plurale) – rappresenta un ostacolo contro la necessità di formare alleanze politiche che superino le contrapposizioni di classe, razza e confini nazionali. Oggi infatti non si può più pretendere di agire sulla base di una supposta essenza femminile (un soggetto dotato di caratteristiche uniche, che riprodurrebbe l’opposizione binaria maschile/femminile), né di un’identificazione naturale nella categoria ‘donna’ (non tutte le donne sono bianche e, in quanto donne, non possiamo dirci tutte sorelle).

Ma porre l’accento solo sulle differenze (su ciò che separa le donne piuttosto che su ciò che le unisce) – avverte invece chi sostiene l’esistenza di un movimento femminista (al singolare) – costituirebbe un serio ostacolo contro la possibilità di riconoscere il movimento delle donne come un soggetto politico collettivo. Spivak suggerisce dunque la possibilità di praticare un essenzialismo strategico: cioè di attribuire alla categoria ‘donne’ delle caratteristiche proprie e uniche, sulla base delle quali è possibile costruire delle identità politiche oppositive (che si basano sempre su generalizzazioni e unità provvisorie), nella consapevolezza dei limiti teorici di questa posizione.

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Grazie alle critiche del femminismo nero e postcoloniale, il femminismo bianco e occidentale – che aveva sempre considerato il genere e la differenza sessuale come le categorie analitiche principali – ha dovuto riconoscere la propria inadeguatezza nel rilevare le differenze e le relazioni di potere esistenti tra le donne. Una prospettiva che consideri l’intersezione tra genere, razza ed etnicità può essere invece un’opportunità per costruire coalizioni transnazionali tra donne appartenenti a culture e contesti diversi, sempre a partire dal riconoscimento del proprio specifico posizionamento.

Il femminismo italiano, in particolare, è stato considerato ‘essenzialista’ da alcune femministe anglofone, perché ha privilegiato la differenza sessuale (la differenza biologica tra donne e uomini) come categoria analitica principale, sottovalutando gli altri assi della differenza (le differenze tra le donne). Sebbene le femministe italiane abbiano tardato a confrontarsi con le intersezioni tra genere, razza ed etnicità, Teresa de Lauretis sostiene che le femministe inglesi e nordamericane dovrebbero correre il ‘rischio’ dell’essenzialismo, che invece le italiane si sono già assunte, teorizzando e praticando una nozione della differenza sessuale nei termini di una alleanza politica tra le donne.

Inoltre, anche se in Italia è mancato un momento di rottura come quello rappresentato negli anni Ottanta per il femminismo americano dal black feminism, oggi la presenza nel nostro Paese di una consistente comunità nera e migrante sta contribuendo a far emergere nuove prospettive. Le donne nere e immigrate, di prima e seconda generazione, che vivono in Italia, lavorano, scrivono, sono impegnate in politica e nel sociale, producono riflessioni teoriche. È grazie alla loro presenza che il nostro femminismo si mette in discussione, mentre si creano nuove reti di relazioni, associazioni e collettivi femministi che uniscono donne native e migranti. Infine, anche grazie al loro contributo, esiste ormai da venti anni una letteratura italiana della migrazione, nell’accademia si apre faticosamente uno spazio per le riflessioni postcoloniali e si avviano ricerche storiche sul colonialismo italiano in una prospettiva femminista e di genere.

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